«Il monaco Morandi nella sua cella è dunque il contrario dell’esteta nella sua torre d’avorio». Così, nel 1945, Roberto Longhi cercava di penetrare il mistero del processo creativo di colui che giudicava (e non era certo il solo) il maggiore pittore del Novecento; egli avrebbe poi ripubblicato quelle pagine nel 1966 «soltanto per corrispondere al caro desiderio espressomi dalle sorelle di Giorgio Morandi». L’immagine del maestro che praticamente da subito si rinchiude nella sua amata Bologna, ritirandosi quasi dalla vita, senza prendere mai moglie e vivendo con le tre sorelle, non è forse troppo lontana da quella di Federico Barocci, genio da subito riconosciuto, celebrato e corteggiato dai contemporanei, che dopo i giovanili successi nella Roma capitale universale dell’arte, si autoesilia nell’altrettanto amata Urbino, vivendo da uomo profondamente devoto quasi cinquant’anni senza prendere moglie – fatto assai più raro nella sua epoca – e rimanendo legato quasi unicamente a sorella e fratello.

Ma paradossalmente, in quel suo ritirarsi dall’Urbe a Urbino, dal centro alla periferia, Barocci divenne sempre più grande, licenziando un capolavoro dietro l’altro: è questo il ‘canone inverso’ di Barocci, secondo la bella formula di Anna Maria Ambrosini Massari – specialista del pittore e della sua scuola –, curatrice, insieme a Luigi Gallo, dell’epocale mostra che si è da poco aperta alla Galleria Nazionale delle Marche, Federico Barocci Urbino. L’emozione della pittura moderna (fino al 6 ottobre; catalogo Electa, pp. 312, euro 49,00).

Federico Barocci, “Autoritratto”, circa 1600, Firenze, Galleria degli Uffizi

Nel caso di Barocci fu il suo più appassionato biografo seicentesco, Bellori (1672), a stigmatizzare quell’immagine dell’artista isolato, anzi ‘languente’, nella lontana Urbino. La mostra, in realtà, cerca di scardinare questo topos, sulla base prima di tutto di Gaspare Celio che ricorda un viaggio a Parma, per studiare Correggio, successivo al primo soggiorno romano di Barocci. Ma in ogni caso fu dalla remota Urbino che la sua arte si irradiò in tutta Italia, attraverso soprattutto l’invio di pale d’altare che suscitarono stupore e meraviglia per ogni dove, da Perugia a Roma, da Arezzo a Ravenna, da Genova a Milano. Fatta eccezione per quelle troppo grandi per poter viaggiare, tutte le più importanti sono tornate nel luogo in cui furono dipinte. Impressiona ad esempio che entrambi i capolavori di Santa Maria in Vallicella a Roma, la Visitazione del 1586 e la Presentazione al Tempio del 1603, siano stati rimossi dai loro altari, al pari della Deposizione dalla Croce di Perugia, un’opera davvero da manuale (1569): a volte ci si chiede se non sia meglio ammirare queste opere nelle chiese per cui sono state dipinte (penso al dibattito su queste stesse pagine tra Pierguidi, De Marchi e Christiansen), ma per il tempo di una mostra, rimane sempre un’occasione imperdibile quella di avvicinarsi e godere di passaggi altrimenti impossibili da apprezzare – e fino a settembre, andando nella vicina Fano, un’altra occasione la offre la piccola mostra, curata sempre da Ambrosini, in occasione del restauro della Pala di Durante di Perugino, del 1497.

La Deposizione di Perugia impose presto Barocci su un piano sovraregionale, e giustamente – come fa notare Ambrosini – l’architetto Raffaello Sozi commentò a caldo che era di una «vera maniera nuova, arteficiosa, et piena di gratia, et di bontà in tutte sue parti»: per invenzione, espressione di affetti, panneggi e colorito, infatti, quel capolavoro non temeva confronti in un più ampio contesto italiano. Ed era davvero una maniera artificiosa, in cui il naturale, studiato appassionatamente da Barocci nei suoi disegni, era coniugato con l’eredità della Maniera cinquecentesca in una formula che avrebbe fatto epoca (ed epigoni, soprattutto nella non vicina Siena, con Francesco Vanni e altri, come indagato già da una bellissima mostra del 2009). Lo stesso maestro vi rimase sempre fedele: già nella seconda stanza, confrontando la Deposizione con la più tarda Istituzione dell’Eucarestia da Santa Maria sopra Minerva a Roma (1608), si registra un progresso, ma senza scossoni, con grazia e artificio rimasti immutati (per Morandi Longhi parlava di «una traiettoria ben tesa, una lunga strada», e forse si potrebbe dire lo stesso di Barocci). Anche per questo la scelta di un percorso per temi (ritratti, pale d’altare, quadri di devozione privata, disegni), piuttosto che per cronologie, si rivela assolutamente vincente in questo caso.

Barocci fu il pittore italiano più pagato, fino alla fine dei suoi giorni, per le pale d’altare (e quindi giusta anche la scelta di chiudere la mostra con la già citata Presentazione al tempio, appena restaurata, indimenticabile), ma altrettanto apprezzati erano i suoi dipinti da galleria, come la Madonna del gatto (National Gallery), in cui la grazia di Correggio è lì lì per divenire affettazione, per divenire Procaccini, ma si ferma un istante prima, in un difficile equilibro tra naturalismo e maniera.

Già Scannelli (1657) avvicinava pericolosamente Barocci a un manierista tout court quale il Cavalier d’Arpino, e quell’associazione sarebbe arrivata fino a Longhi, che non amò mai Barocci, per il quale parlava ancora nel 1957 di «astrazione manieristica». Per lo studioso di Alba, chiaramente, Barocci usciva sconfitto dal confronto con i grandi rinnovatori contemporanei, Carracci e Caravaggio, e la tesi di un rapporto stretto tra Annibale e l’Urbinate, sostenuta con forza nella mostra bolognese del 1975 da Andrea Emiliani (al quale, con bel gesto, è ora dedicata questa rassegna), non ha retto nel tempo. Certo nel bellissimo cartone preparatorio per la Fuga di Enea da Troia (Louvre) – unica incursione del religiosissimo Barocci nella storia profana – si vede bene come a volte il pittore si tenesse fedele al naturale fino a uno stadio avanzato del processo creativo (Ascanio è qui un bambino vero), per affidarsi poi, nella stesura pittorica, a formule più idealizzate: bellissimo il confronto con la versione dipinta della Galleria Borghese, una tela in cui persino l’architettura si tinge di rosa.

La sezione dei disegni, curata dall’altro specialista di Barocci, Luca Baroni, permette di apprezzare il laborioso, persino faticoso, processo creativo del maestro, che per dipingere ciascuna delle pale già citate poteva impiegare anche fino a dieci anni, esasperando quasi i committenti. E si apprezza anche lo sperimentalismo del maestro, la sua padronanza di ogni tecnica grafica, e in special modo del pastello, con il quale, negli studi di teste, raffinatissimi, egli dialoga persino con il Settecento, con Benedetto Luti.

Nell’ultima sala, di fronte alla Beata Michelina (Musei Vaticani), licenziata nel 1606 ma in lavorazione già nel 1590 (!), si capisce bene come Barocci potrebbe pure essere giudicato l’anello mancante tra Correggio e Lanfranco, o ancora tra Correggio e Bernini, per quella retorica degli affetti che ha così tanto, in nuce, del pieno Barocco. E ancora, sempre nella Presentazione al Tempio, il montone in primo piano, di un naturalismo lenticolare e al contempo dolce e affettuoso, fa tornare alla mente lo splendido asinello della Visitazione che in Santa Maria in Vallicella accendeva la devozione di Filippo Neri, il più illustre tra gli estimatori di Barocci; o quello studio di gatto (Uffizi) che sfiderebbe ogni conoscitore – e che certo non è un’opera di astrazione manieristica».

La mostra, in qualche modo, prosegue poi al secondo piano del Palazzo Ducale, dove si possono ammirare le pale d’altare più grandi conservate in Galleria (a partire dal San Francesco riceve le stimmate, da confrontare a distanza con quello più piccolo, prestato ora dal Metropolitan Museum), e soprattutto nella città, al Duomo (con ben tre capolavori di Barocci), in San Francesco, e anche nell’Oratorio della Morte, che in questi mesi sarà eccezionalmente sempre aperto: dall’ingresso si potrà ammirare una grandiosa Crocifissione (360 x 254 cm), ancora nella sua originale cornice dorata, che è un capolavoro di quel manierismo barocco che fu solo e unicamente di Barocci.