L’immagine vulgata di Giuseppe Baretti (Torino 1719-Londra 1789) sta nella tela di Sir Joshua Reynolds che ritrae cinquantacinquenne l’indubbio antesignano della critica letteraria italiana seduto in poltrona, il corpo massiccio e la giacca che richiama i capelli ancora marroni mentre sta leggendo un volumetto in sedicesimo con gli occhi socchiusi e vicinissimi alla pagina, segno di una forte miopia. Diverso è il profilo attribuito alla bottega di Pierre Subleyras (la tela è in Palazzo Madama a Torino), che sorprende a leggere distrattamente un uomo ben più giovane, giacca di velluto e tanto di parrucca aristocratica, ora nella copertina del volume collettaneo Letteratura e giornalismo IV Giuseppe Baretti e il giornalismo dei secoli XVIII-XIX (Marsilio-Fondazione Dino Terra, pp. 146, € 16,00) che esce nell’ottima cura di Daniela Marcheschi, firmataria del saggio introduttivo che colloca lo spirito inquieto e per proverbio indocile del Baretti nel contesto di una produzione ormai leggibile solo in quanto Weltliteratur: persino ovvio rilevare che l’opera del giornalista e scrittore è pensabile soltanto al cospetto del suo costitutivo plurilinguismo perché a Londra egli prese a scrivere in un inglese scintillante (poi addirittura si concesse, in un francese velenoso, la celebre esquisse contro Voltaire) e poté a lungo profittare della frequentazione come della confidenza, nientemeno, dell’ineffabile Samuel Johnson.

In realtà i due ritratti citati colgono la natura bifronte di un uomo refrattario al proprio tempo, uno che inorridiva al titolo di savant e più che mai di ideologue, che detestava Goldoni ritenendolo un sordido bottegaio, che diffidava apertamente di Dante Alighieri e invece preferiva Ariosto e ammirava la metrica esatta, implacabile, di Metastasio: era lo stesso uomo, tuttavia, che aveva esordito con un rimario alla maniera del Berni e manteneva un vero e proprio culto per William Shakespeare.

Erma bifronte, Aristarco Scannabue (firma proverbiale della «Frusta letteraria», il foglio edito a Venezia fra il 1763 e il 1765, da lui redatto pressoché in esclusiva) è sia un provinciale dichiarato, chiuso e misoneista, nemico giurato dei Lumi, sia il contravveleno necessario, aspro e irridente, alle svenevolezze incipriate dell’Arcadia. Nemmeno è un caso che i contributi centrali del presente volume vertano sul rapporto, e in sostanza sul conflitto, tra le posizioni della «Frusta letteraria» e il coevo «Caffè» che esce a Milano, nella couche di Beccaria e dei fratelli Verri, fra il ’64 e il ’66. Gianmarco Gaspari, nel suo saggio, oppone lo stile monologico del foglio barettiano, steso in illustre lingua toscana, a quello invece «conversativo» del gruppo milanese la cui lingua è eclettica ai limiti di un consapevole ibridismo; mentre l’eccellente contributo di Elvio Guagnini (Una onesta libertà. Sulla nascita del giornalismo d’opinione nel Settecento italiano) muove da ciò che lo studioso definisce la polemica individualistica e moralistica dello scrittore torinese per recuperare, traguardando l’esempio del «Caffè», un passo dalla voce «Giornalista» dell’Enciclopedia dove si raccomanda non di divertire il lettore ma di fornirgli «giudizi equilibrati e profondi», di istruirlo ed educarlo all’analisi, di persuaderlo infine del fatto che «i suoi criteri di giudizio sono i principi, non il suo gusto personale» o men che mai «le circostanze passeggere del suo tempo, lo spirito della sua nazione o del gruppo cui appartiene, i pregiudizi correnti».

Chi firma un simile rescritto, il quale liquida a priori la poetica atrabiliare della «Frusta», è Denis Diderot ma qui siamo giusti agli antipodi di Giuseppe Baretti. Costui, infatti, ha un senso indomabile della libertà ma, nel suo anglicismo onorario, tende a ignorare il senso della eguaglianza. La sua critica è tale solo nella misura in cui sfoga un umore o riafferma una libertà incondizionata del giudizio e perciò se è vero che Aristarco Scannabue rimane libero nella sua integrità di individuo, non essendo oltretutto un accademico, è anche vero che don Petronio Zamberlucco nella «Frusta» non è mai un suo vero interlocutore ma piuttosto un coadiutore o talora uno straw man. Circa l’umorismo del portavoce, nota Marcheschi, che per Aristarco «la Verità, per essere credibile, richiede una forte personalizzazione del discorso» e che in tal modo «contribuisce a fondare la dimensione autobiografica della critica (…) la personalizzazione del discorso che può attirare l’attenzione del lettore sia comune sia specialistico».

Dunque Baretti non fu un critico in senso convenzionale ma un lettore appassionato, così sulfureo da indurre in Walter Binni il sospetto che non tanto si trattasse di un anti-illuminista quanto di un inopinato pre-romantico: Leopardi, in proposito, si chiese più volte il motivo della sua «decisa inclinazione» a sparlare di tutto. E in effetti, benché Londra in certo senso abbia raffreddato e ricomposto l’oltranza del suo stile, la verve del vecchio Scannabue torna a segnare anche pagine tarde, come le lettere o gli scritti di viaggio e si veda da ultimo la Incompiuta narrazione di un viaggio in Inghilterra, Portogallo e Spagna (a cura di Marco Catucci, Robin 2020). Il suo era lo stile di un libertino che nella vita non fu mai tale, discreto al punto (e lo racconta una sua buona biografa, Maria Luisa Astaldi, in Baretti, Rizzoli 1977) che sentendosi prossimo a morire chiese un bicchiere di vino, salutò affettuosamente gli amici, li pregò di andarsene e di chiudere la porta perché lo spettacolo della sua morte non disturbasse la gentile padrona di casa, agendo come gli eroi plutarchiani prediletti da quei classicisti che egli detestava.

Né ebbe eredi o continuatori e, semmai, l’eco delle sue intemperanze riecheggia a momenti come nel grande esempio di Piero Gobetti che gli dedicò l’estrema delle sue riviste o in talune figure laterali a partire dal suo conterraneo Arrigo Cajumi (1899-1955), un saggista di gran classe e di sbrigliata inventiva che volle intitolare il proprio zibaldone, per l’appunto, Pensieri di un libertino (Einaudi 1950), dove ancora una volta ci si riferisce a una figura ancipite: «Quello spiritaccio maledico del Baretti era un uomo d’ingegno (…) peccato fosse un conservatore e si scandalizzasse davanti al Boccaccio, schifasse la grande oscenità cinquecentesca. Con tutti i numeri per riuscire il Voltaire italiano, e rinvigorire il nostro Settecento in senso progressista ed enciclopedico, Baretti ha fatto long feu, ed è rimasto un’autorità letteraria di secondo piano, un forcaiolo disert, come un secolo dopo sarà Tommaseo».

Chi oggi legga uno dei libelli terminali, il Discours sur Shakespeare et sur Monsieur de Voltaire, benché l’autore molto vi avesse lavorato e molto se ne aspettasse, subito si accorge sia della sua natura pretestuosa (alcuni errori rilevati nelle versioni volterriane da Shakespeare) sia della debolezza di una confutazione oltretutto redatta senza l’agilità e l’eleganza consuete ma in uno stile stavolta grossolano, sguaiato. Purtroppo, o per fortuna, Giuseppe Baretti rimase sempre nella impasse tra l’appassionata generosità dello stile e la tetra inerzia di molte sue idee, fisso nell’intima contraddizione che – sottolinea Daniela Marcheschi – comunque avvalorava il senso di una irriducibile individualità: la Grande Rivoluzione gli fu risparmiata, morì a Londra due mesi prima dell’assalto alla Bastiglia.