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Barenboim, Levit, due opposte interpretazioni

Barenboim, Levit, due opposte interpretazioniIgor Levit

Improvvisi Un’avventura, emotiva e intellettuale insieme, ascoltare parallelamente le due ultime incisioni integrali delle sonate di Beethoven: Daniel Barenboim e Igor Levit

Pubblicato quasi 4 anni faEdizione del 20 dicembre 2020

Un’avventura, emotiva e intellettuale insieme, ascoltare parallelamente le due ultime incisioni integrali delle 32 sonate di Beethoven: Daniel Barenboim, 78 anni, (Deutsche Grammophon, 11 cd, comprese le Variazioni Diabelli, € 42,99) e Igor Levit, 33 anni (Sony, 9 cd, € 59). Due esperienze lontane e diverse della stessa musica. Due letture, due intelligenze quasi opposte. Barenboim racconta Beethoven come si racconta un romanzo, narra la sua musica, il succedersi dei casi, delle avventure musicali, come inseguisse il dipanarsi di una coscienza di libertà, lo svincolarsi dalle catene di una costrizione, op. 2 n.1, per uscire all’aria aperta, op. 111. L’interpretazione è un racconto dell’evolversi di una forma, di un’idea musicale. Levit legge, invece, Beethoven con l’orecchio di un momento elettrico del mondo. Beethoven ci colpisce, ci ferisce con illuminazioni folgoranti, scatti energici, vorticosi, con ripiegamenti spesso cupi, disperati su sé stesso, ma anche con abbandoni, distensioni di intimo canto. Ora, Beethoven è l’una cosa e l’altra. È questa meditazione pacata dello scorrere del tempo, ma è anche la dolorante percezione delle sue fratture. Quale è il Beethoven vero? Domanda ingenua e mal posta.

Tutti e due. E tanti altri, quante sono le letture possibili della sua musica. La verità dell’arte sta proprio nella molteplicità delle letture possibili. Complementari, non escludentesi. Quando si sarà compiuto l’ascolto, e finita quest’avventura, si riascoltino Schnabel, Arrau, Backhaus, Richter, Ashkenazy, Pollini, Brendel. E tutti gli altri che sarebbe lungo elencare. Saranno viaggi avventurosi e pieni di pensiero. Perché poi questo, alla fine, salta fuori: quanto questa musica sia soprattutto pensiero, e quanto commuova proprio perché è una musica che pensa, una musica che come poche altre ha indagato la condizione umana, il rapporto tra noi e la realtà, tra un interno e un esterno, tra la vita e la morte. Si pensi all’op. 26, che piaceva a Chopin, al punto di rubarne l’idea di sostituire il tempo lento con una marcia funebre. Barenboim sembra volerci rasserenare, dirci che la morte è una parentesi. Levit non indietreggia davanti all’abisso: la morte c’è, perdura anche nella resurrezione, nell’uscita dal buio. Persiste come interiorità insopprimibile, come musica che riflette su sé stessa. Indubitabile, chiara, precisa viene fuori l’immagine della solitudine, di un uomo di disperata, inconsolata, incolmabile solitudine.

E la sua lotta per uscirne. Mai reale l’uscita, ma sperata perché voluta. Il Fidelio è in qualche modo il prototipo di ogni pagina beethoveniana: dalla costrizione alla liberazione. Liberazione che si realizza, però, solo nell’utopia. Nella musica c’è la libertà, c’è la vita, non nella realtà, ch’è limitata, finisce. Sono riflessioni da cui riesce difficile uscire, ascoltando sia l’uno che l’altro Beethoven. Ha peso il fatto che i due pianisti siano entrambi ebrei, e condividano pertanto una lunga storia di meditazione sull’esilio, la costrizione, la morte? Barenboim sembra volerne uscire, Levit restarne ancora prigioniero. Barenboim ha registrato il ciclo delle sonate in solitaria reclusione durante la prima ondata del covid. Alle spalle il fallimento dell’esperienza del Divano Occidentale-Orientale, l’orchestra che riuniva israeliani e palestinesi. Levit qualche mese prima. Nel pianista maturo le sconfitte del passato spingono a cercare un’uscita: Beethoven è il percorso di una liberazione.

Il pianista più giovane sembra non nutrire simili speranze. L’utopia beethoveniana sancisce che dunque il mondo è insopportabile, la vita irrespirabile. Fin dalla prima sonata, nervosa, frenetica, quasi isterica, e tuttavia dolcissima. Il contrasto tra esplosione della violenza e ripiegamento nella riflessione interiore, che in Barenboim è liberatorio, in Levit non è sanato. Anzi, la dolcezza estenuata, estenuante del canto non risana le ferite della violenza. Forse è un forzare Beethoven. Oppure, chi sa, davvero, anche per Beethoven, la ferita si risana solo uscendo dalla vita: così sembrano dirci gli ultimi accordi dell’op. 111.

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