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«Barcellona insegna»

«Barcellona insegna»

Intervista Dopo una straordinaria lotta studentesca, l’università ha accettato di inserire la «crisi eco-sociale» tra le materie obbligatorie in tutti i corsi di laurea. Parla Lorenzo Velotti, tra i protagonisti dell’occupazione

Pubblicato quasi 2 anni faEdizione del 22 dicembre 2022

Il mese scorso in pochi in Italia (il manifesto ne è un’eccezione) si sono accorti che a Barcellona è avvenuta una piccola rivoluzione. Uno di quegli avvenimenti che sono storici, ma che – ancora di più – marcano uno Zeitgeist. L’Università di Barcellona (la UB), la prima al mondo, si è impegnata a partire dall’anno accademico 2024-2025 a trasformare la crisi ecosociale in materia obbligatoria e trasversale per tutte le facoltà e tutti i corsi di laurea. Non è un caso che questo avvenga proprio nella città che è diventata riferimento mondiale per le sue politiche urbanistiche ecofriendly. Uno dei protagonisti che ha reso possibile una decisione che coinvolgerà i 6.200 professori e i più di 14 mila studenti che l’università sforna ogni anno è il dottorando italiano in sociologia Lorenzo Velotti. Laureato in scienze politiche a Bologna, con master in antropologia a Londra, ha vissuto in Argentina, Stati Uniti, Grecia, fra attivismo e ricerca. A Londra ha incontrato come professore l’antropologo e attivista anarchico David Greber, riferimento del movimento Occupy Wall Street, che lo ha trasformato. Attivo nel No Borders Camp in Grecia nel 2016, si è unito nel 2018 a Extinction Rebellion, un movimento che chiede ai governi con azioni di disobbedienza civile nonviolenta di controllare la crisi climatica, fermare la perdita di biodiversità e minimizzare il collasso ecosociale. «È stato quello il momento in cui mi sono avvicinato alla lotta ecologista», dice. In quegli anni è quando venne a Barcellona per iniziare una collaborazione di ricerca su decrescita, giustizia ambientale, ecologia politica.

Come è cominciata la campagna che vi ha portato alla protesta alla UB?

I numeri che si vedevano in piazza con Fridays for Future nel 2019 non ci sono più. End Fossil è una campagna internazionale nata per radicalizzare il movimento per quanto riguarda la tattica, passando da richieste macro a obiettivi concreti, dagli scioperi alle occupazioni. Io mi sono unito all’ultimo: mi sono presentato il giorno dell’occupazione, 2 novembre. Eravamo solo una trentina di persone e non mi era chiaro che arrivassimo da nessuna parte.

E invece…

Alla fine ho deciso che sarei rimasto a dormire nell’accampamento che avevamo fatto nel cortile. L’università ha iniziato subito a negoziare perché quelli che si erano incatenati all’ingresso si togliessero da lì. Come movimento End Fossil facemmo subito tre richieste: che l’università si svincolasse da imprese legate ai combustibili fossili, in questo caso Repsol; che si svincolasse dalle banche che fanno business con i fossili, in questo caso da Santander, che è molto pervasiva della vita universitaria; e infine che si istituisse una materia sulla crisi ecosociale trasversale per tutti i corsi.

E come è andata?

Il giorno dopo l’occupazione l’università ci fece arrivare un documento astratto che voleva che firmassimo, dicevano che era un ultimatum. Ma era solo strategia: non avrebbero smesso veramente di negoziare. Quindi resistemmo. Loro non avevano nessuna intenzione di farci stare li all’infinito e neppure di farci sgomberare dalla polizia nella sede storica dell’Università.

Come mai?

Perché, grazie alle lotte degli ultimi anni e al cambio di coscienza che si sta creando nella società riguardo a questo tema, perlomeno a Barcellona, è difficile immaginare che un’università si possa permettere di far sgomberare con la forza dalla polizia degli studenti che stanno chiedendo quello che chiedevamo noi. Questa è una vittoria frutto di anni di lotte. Abbiamo continuato a negoziare con il rettorato su ogni virgola del documento che loro ci avevano consegnato, aggiungendo le nostre richieste e smontando i loro argomenti. Finché siamo riusciti con sudore e lacrime ad arrivare all’accettazione da parte dell’Università della richiesta sulla materia trasversale sulla crisi ecosociale.

E come definiresti la crisi ecosociale?

È un concetto introdotto dall’attivista intellettuale spagnola Yayo Herrero, ecofemminista e antropologa che ha teorizzato la crisi in corso non solo come una crisi climatica, ma come una crisi ecosociale, perché ha a che vedere non solo con una questione puramente biofisica ma è una crisi sistemica della civiltà che ha degli effetti socioeconomici, disuguaglianze globali e nazionali e questioni di genere. È un sistema che nel suo complesso non sostiene la vita: come esseri umani siamo sia interdipendenti che ecodipendenti. È una prospettiva più sistemica rispetto alla crisi ecologica.

Cosa ha accettato l’università?

Attraverso un documento firmato dal Rettore, si è impegnata a formare i suoi professori sulla crisi ecosociale e a inserire crediti obbligatori su questo tema per tutte le facoltà e corsi di laurea entro l’anno 2024-2025. Per controllare questo processo c’è una Commissione che abbiamo nominato noi, formata da accademici di alto prestigio e persone che sappiamo avere anche una prospettiva critica e multidisciplinare. Credo sia la vittoria più importante.

Ci credete davvero?

Fino a un certo punto. Rimaniamo vigili come collettivo. Un’altra clausola che abbiamo inserito è che saremo osservatori di questo processo, ci convocheranno nelle riunioni rilevanti. Stiamo già pensando a campagne mediatiche e azioni. Il comunicato dell’università è solo una vittoria di un percorso. Bisogna mantenere un po’ il fiato sul collo all’università.

Chi sono stati i vostri alleati?

Sono i movimenti del passato e gli altri del presente. I pensionati, che hanno raccontato le lotte per rendere le università luoghi democratici per portare avanti le lotte. I movimenti per la casa, i movimenti ecologisti, quelli contro le olimpiadi invernali in Catalogna. E poi, anche prof che sono stati solidali più di quanto ci aspettassimo.

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