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Barbey d’Aurevilly, cronache di un ego senza limiti

Barbey d’Aurevilly, cronache di un ego senza limitiJules Barbey d’Aurevilly ritratto da Félix Nadar

Ottocento francese I «Memoranda» (Aragno) raccolgono le annotazioni diaristiche di Barbey d’Aurevilly: che sono infarcite di banalità tipo: «Alzato. Il parrucchiere è venuto...»

Pubblicato quasi 2 anni faEdizione del 11 dicembre 2022

Italo Calvino, invitato da Gian Piero Bona a illustrare il concetto di «indomabilità del fantastico», consigliò all’interlocutore di leggere L’Ensorcelée di Jules-Amédée Barbey d’Aurevilly (1808-1889). Fu così che nacque il progetto di tradurre quel romanzo incantevole, originariamente apparso nel 1854 e ambientato all’epoca della chouannerie, che verrà accolto nel 1992 nella collana einaudiana «Scrittori tradotti da scrittori» con il titolo La stregata. D’altro canto quel libro, il cui «tellurismo magico affiorava in tutte le sue visioni più inquietanti», per riportare le parole dello stesso Bona, aveva conosciuto svariate versioni italiane, a cominciare da quella pionieristica di Ercole Moreni con il titolo La donna affascinata, uscita per i tipi di Remo Sandron nel 1911.

Ma abbondano le versioni di altre opere di questo scrittore anomalo che, secondo la definizione di Mario Praz, rappresentava l’«ipòstasi del dandy»: alcune allestite per la raccolta di racconti Le diaboliche, affrontata in primis da Camillo Sbarbaro per Bompiani nel 1945 nella collana «Il centonovelle» e ora disponibile nei tascabili Feltrinelli, nonché per il saggio su Lord Brummel e il dandismo che influenzerà l’amico e sodale Baudelaire. Non mancarono nemmeno trasposizioni di romanzi come Il Cavaliere des Touches per Bompiani, Un prete sposato per Paoline e Una storia senza nome per Marsilio, che vanno a integrare quelle più datate, riguardanti un pugno di florilegi critici, confluiti nelle Impressioni di storia e di letteratura italiana (Carabba 1914) e nelle Stroncature (Formiggini ’27).

Sarebbe interessante approfondire la ricezione nel nostro paese di questo conservatore illuminato (se non proprio reazionario), originario del Cotentin, che sfocerà nell’interpretazione cinematografica del pregevole racconto Le plus bel amour de Don Juan, tratto dalle succitate Diaboliche, realizzata da Carmelo Bene nel suo rutilante Don Giovanni (1970) che sembra fare il paio con Un Amleto di meno (’73), basato, più che sul dramma shakespeariano, sul rimaneggiamento che ne fa Laforgue nelle Moralità leggendarie.

Barbey rivendicherà con orgoglio le prese di posizione legittimiste e cattoliche dopo una fase in cui si era a più riprese dichiarato ateo, repubblicano e immoralista. Alla conversione, avvenuta nel 1846 dopo un lungo processo non privo di ripensamenti, non fu estranea la lettura dell’opera del conte savoiardo Joseph de Maistre. I conflitti ideologici e religiosi che si ripercuotono nei suoi scritti attraversano indifferentemente trame di romanzi e racconti, permeandoli di una libertà espressiva avulsa da qualsiasi moralismo spicciolo, com’era nelle corde di tanti suoi contemporanei. Non è un caso che il motivo del fantastico serpeggi in tutta la sua produzione, trovando non poche corrispondenze con le novelle dei romantici Charles Nodier e Petrus Borel alias il Licantropo o del decadente Villiers de l’Isle-Adam. Il retaggio cattolico, vissuto con un’intransigenza che a volte degenera nell’involontario panegirico di Satana, troverà molti punti di contatto con l’opera di Bourget, Huysmans e Bloy. Con la consueta acredine Édmond de Goncourt, ormai «vedovo» del fratello, ne stilerà un ritratto impietoso nel Journal, subito dopo la sua scomparsa, in barba a qualsiasi pietas: «Uno scrittore la cui fama è legata soprattutto al suo costume di vanesio, al cattivo gusto delle sue cravatte dai galloni d’oro, ai suoi pantaloni grigio perla a bande nere, alle sue redingote a sbuffo, ai guanti con risvolti, insomma al carnevale che si porta addosso tutto l’anno per le vie».

D’altro canto i medesimi protagonisti delle vicende descritte da Barbey sembrano coniugare i profili di Byron e Brummel, configurandosi come prototipi del dandy ottocentesco attraverso il loro portamento impassibile e altero, che ha come fine l’ostentazione di un insopprimibile dégoût (si ricordi Une Charogne nelle Fleurs du mal). Interessati a tale snobistico feticcio, che sembra prefigurare i malumori di Des Esseintes (l’atrabiliare protagonista di À rebours), più che al taglio del soprabito o alla forma impeccabile dei favoriti, queste figure si snodano lungo i suoi testi con la stessa meccanica disinvoltura dell’autore che cela articolazioni legnose come le marionette di cui parla Kleist. Altrove procedono dinoccolati da una pagina all’altra, assumendo lo stesso sguardo arcigno di rapace del loro deus ex machina, il cui profilo trapela tra chiome arruffate e baffoni spioventi in balìa di un vento che fustiga una spiaggia normanna o vengono immortalati mentre redigono lettere in una grafia dall’inchiostro color sangue che ricorda l’eleganza di un ghirigoro impalpabile, di uno svolazzo nubiforme in cieli paradisiaci dipinti da Watteau all’imbarco per Citera.

Esce ora da Aragno, per le ottime cure di Vito Sorbello, Memoranda («Biblioteca», pp. XXX – 556, € 30,00) che raccoglie le annotazioni diaristiche di Barbey che vanno dal 1835 al 1864, suddivise in cinque parti introdotte da un Memorandum ante primum. Inediti in italiano, questi testi costituiscono una sorta di autoritratto virtuale dell’autore, nonostante lui stesso li definisse «vomitoria alla romana», in considerazione dell’uso che ne veniva fatto, di laboratorio alchemico atto a ricavare qualche sparuta scintilla d’oro, magari da sfruttare come spunto per l’opera maggiore. La lezione si basa su quella accolta nel secondo volume delle Œuvres romanesques complètes, pubblicato nella Bibliothèque de la Pléiade di Gallimard nel 1966, a cura di Jacques Petit.

Il curatore avverte, nella sua esauriente introduzione, come i Memoranda abbisognassero di un referente al fine di avvicinarsi a quella civiltà della conversazione del XVII secolo auspicata da Sainte-Beuve nelle sue Causeries du lundi, in parte derivante dal modello della «ridente bionda» Mme de Sévigné. «Oh! La conversazione, la conversazione, quale sirena!», si legge in data 8 agosto 1837. Al riguardo Praz, non smentendosi, asserisce che le Diaboliche di Barbey sembrano derivare, più che da reminiscenze sadiane, dalle «bizzarrie secentesche sulle belle epilettiche, le incantevoli mendiche e le cortigiane frustate», portando a esempio il marinista Alessandro Adimari.

I due primi Memoranda risentono dell’influenza dell’amico fraterno Maurice de Guérin, autore di un Cahier vert, che mise a disposizione di Barbey i diari della sorella Eugènie, vergati nella torre del maniero di famiglia nel Cayla; il terzo Memorandum è scritto per Guillaume-Stanislas Trébutien, libraio e amico che aveva il compito di trascrivere i testi di Barbey, soprannominato per la sua fedeltà Guérin II; il quarto è l’unico che non implichi un destinatario specifico mentre il quinto e ultimo è dedicato all’Angelo Bianco, ovverossia a Mme de Bouglon. Tutto ciò che si ritrova nell’opera narrativa, compresa la facoltà di sorprendere il lettore con trovate sempre nuove, qui implode miseramente, lasciando il posto a una cronaca a tratti stucchevole, concernente predilezioni e idiosincrasie del suo artefice, vera e propria apoteosi di un ego senza limiti. Si riportano, in maniera ossessiva, le vicissitudini esistenziali dello scrittore nelle sue peregrinazioni da Parigi a varie località, perlopiù normanne (Caen, la nativa Saint-Sauveur, Valognes ecc.), indugiando nella descrizione delle azioni più banali, come quella di sottoporsi all’opera del parrucchiere che si reca a domicilio o riportando annotazioni stenografiche intorno a digestione, riposo ed eventuali incontri: «Oggi meglio di ieri. – I nervi sollevati e lo spirito anche. – Sveglio alle nove. – Letto Shakespeare a letto. – Alzato. Il parrucchiere è venuto». Non mancano tuttavia esiti più risolti, come questo scorcio di Caen che sembra prefigurare certe suggestioni proustiane: «Il paesaggio superbo in alcuni posti. Irto di campanili normanni (Medioevo) delicati e sottili come aghi». Non sembra già Martinville?

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