Bar, la metafisica nel fondo di un calice o due
Luoghi Prima che se ne perda la memoria, raccontiamo di alcuni locali ormai chiusi o che ancora sopravvivono e che sono stati frequentati assiduamente dalle generazioni più recenti di poeti, scrittori, artisti che come installazioni viventi si potevano incontrare ogni sera a interpretare se stessi
Luoghi Prima che se ne perda la memoria, raccontiamo di alcuni locali ormai chiusi o che ancora sopravvivono e che sono stati frequentati assiduamente dalle generazioni più recenti di poeti, scrittori, artisti che come installazioni viventi si potevano incontrare ogni sera a interpretare se stessi
Sono ormai diventati luoghi di pellegrinaggio turistico alcuni locali enfatizzati dal cinema e dalla letteratura e forse i bar stanno anche scomparendo come indispensabile luogo di scambio di idee e luoghi di incontro senza formalità, così come i «caffé» ottocenteschi, o come lo sono stati i bar Rosati e Canova a Roma a dividere nettamente in due negli anni Cinquanta gli intellettuali di destra e di sinistra. E l’antichissimo caffé Greco, sempre sotto minaccia di sfratto, che tra i suoi clienti ha avuto anche Schopenhauer e Buffalo Bill e Orson Welles immortalato nella foto di Irvin Penn insieme a una generazione di scrittori degli anni Quaranta. O a Firenze «Le Giubbe rosse» sede della storica rissa tra futuristi e scrittori della Voce. Restano nell’immaginario un elegante Tommaso Landolfi che compare al caffè Aragno di via del Corso, i celebri avventori del café de Flore di Parigi che prendono vita nelle pagine di Simone de Beauvoir, tra Sartre e Cioran, Apollinaire e Aragon, fino a «Piperno che organizza la rivoluzione dai tavolini del bar Giolitti».
Prima che se ne perda la memoria, raccontiamo di alcuni locali ormai chiusi o che ancora sopravvivono e che sono stati frequentati assiduamente dalle generazioni più recenti di poeti, scrittori, artisti che come installazioni viventi si potevano incontrare ogni sera a interpretare se stessi, teatro vivente di discussioni memorabili e del tutto dimenticate. Luoghi di scuola di democrazia, dove ai gestori era permesso di apostrofare allo stesso modo e con il solo nome di battesimo il coatto e l’artista geniale, se alzavano troppo i toni e dove unica regola era arrivare senza darsi nessun appuntamento.
Così succedeva a Roma tra Campo de’ Fiori e il bar del Fico e dintorni. Del resto, a qualche metro dal sottosuolo si possono ancora visitare le tabernae dei mercati di Traiano di epoca imperiale e poi medievale con i banconi e incisioni sui muri e sicuramente anche a quei consumatori di vino e miele sarà capitato di lamentarsi della chiusura del «Felix Fenix» fine di un’epoca, proprio come il vinaio di Champ des Fleurs, così rinominato.
Il ricordo dei bar è argomento inesauribile, a cui ogni lettore può aggiungere personali episodi e personaggi: qui si racconta il Jamaica milanese, nato come «fiaschetteria», luogo di incontro di una memorabile stagione artistica della città, prima di quella da bere, quella dei grafici, dei fotografi e dei surrealisti da palcoscenico. Si visita lo storico Harry’s Bar veneziano, le birrerie praghesi con illustri avventori come lo scrittore Bohumil Hrabal, la Lisbona di Ferdinando Pessoa che riprenderà nei film di Botelho le sue conversazioni interrotte alla Brasileira. E ogni generazione guarderà quella successiva con una certa supponenza, sempre valido il commento di Flaiano: «credono di essere noi».
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