Non sono molte le interviste rilasciate da Anna Banti, poche le occasioni in cui la narratrice si è abbandonata al ritmo feriale della chiacchiera, al gusto di uno scambio confidente e disinvolto. Nelle risposte è controllata, spesso ritrosa, quasi brusca. Si direbbe che i suoi interlocutori facciano fatica per convincerla a parlare. L’unico argomento su cui dà l’impressione di soffermarsi volentieri, soprattutto dopo la morte del marito, è la leggenda un po’ teatrale, se vogliamo anche romantica della sua doppia vocazione. Ogni volta la ripropone ritoccandola, con regale noncuranza aggiunge o tralascia piccoli dettagli. L’infanzia solitaria di bambina timida e orgogliosa, le storielle cominciate a scrivere già in prima elementare, il desiderio frustrato di amicizie, l’incontro con Roberto Longhi suo insegnante di liceo, il loro matrimonio: ogni accadimento, come nel disegno incantato di una fiaba, la spinge verso un futuro diverso da quello sognato di storica dell’arte, prelude al battesimo fatato di un nom de plume e al suo prodigioso destino di scrittrice.
Il nome ce lo facciamo noi

«Mi sarebbe piaciuto usare il cognome di mio marito. Ma lui l’aveva già reso grande e non mi sembrava giusto fregiarmene. Il mio vero nome, Lucia Lopresti, non mi piaceva. Non è abbastanza musicale», tornerà a ripetere nell’ultima intervista, pronta però a rivendicare: «Del resto il nome ce lo facciamo noi. Non è detto che siamo tutta la vita il nome della nostra nascita». È l’autunno del 1983, sono passati due anni dall’uscita di Un grido lacerante, il romanzo in cui molto ha narrato di Longhi e di sé; a lei di anni da vivere ne rimangono solo altri due, non basteranno a comporre un nuovo libro. Tuttavia scrive ancora, così dice in quell’intervista a Sandra Petrignani. Ormai non più a macchina, come faceva un tempo quando lavorava in poltrona tenendola sulle ginocchia, ma «a mano in grossi quadernoni». Scrive soltanto racconti e li pubblica su «Paragone», la rivista che nel 1950 ha fondato con Longhi. «Io amo molto il racconto perché vi si può concentrare di più», spiega con tagliente chiarezza. E poco dopo conclude: «A me sembra, oltretutto, che il racconto, con i suoi tempi veloci, sia più adatto ai tempi affrettati dell’età moderna». Si tratta di parole molto precise, Banti non le ha mai pronunciate prima in nessun’altra intervista. Né le ha mai scritte altrove.
L’ombra di un’intenzione

Di libri di racconti, da Il coraggio delle donne (1940) a Da un paese vicino (’75), l’autrice ne ha firmati sette. Tra questi, oltre a un paio di raccolte antologiche progettate da lei stessa, due opere di straordinaria potenza narrativa, cardinali nella sua storia di scrittrice: Le donne muoiono (’51), con cui vinse il premio Viareggio, e l’onirico, testamentario Je vous écris d’un pays lointain (’72). Chissà che quel pomeriggio dell’83, mentre parlava di forma breve con la sua intervistatrice, Anna Banti non immaginasse di mettere insieme un altro libro di racconti. Del resto, oltre a scriverne di nuovi, in quel periodo ne stava pubblicando anche di vecchi, come dice lei rimasti «nel cassetto». Seguendo magari l’ombra di un’intenzione, a comporre quel libro ha pensato adesso Fausta Garavini, cui già si deve la fondamentale scelta di Romanzi e racconti curata con la collaborazione di Laura Desideri per la collana dei Meridiani nel 2013. In questo postumo, corposo Racconti ritrovati (La nave di Teseo, pp. 390, € 20,00) la francesista e a propria volta narratrice Garavini riunisce di Anna Banti quarantasette testi: tutti quelli editi sparsamente in giornali e riviste, dall’esordio assoluto del 1930 all’estremo contributo narrativo del 1984, però mai accolti in volume dall’autrice. L’aggettivo che la curatrice adotta per il titolo è importante, l’attenzione vira dalla volontà al caso: non dispersi o dimenticati, né tantomeno rifiutati, ma semplicemente ritrovati. Tuttavia la ragione vera del libro, il suo significato risiede proprio nella luminosa volontà che lo attraversa: quella perseguita da Anna Banti per diventare se stessa e realizzare il suo destino.
Quali vicende si dispiegano nei Racconti ritrovati? E soprattutto quali personaggi incontrerà il lettore percorrendone le pagine? La vita sacrificata delle donne, la sconsolata mancanza di fiducia nella loro autonomia, anche il coraggio soffocato, lo spreco ammutolito di ogni inclinazione: siano monache o sartine, signore annoiate, servette, studentesse le protagoniste di Anna Banti rimangono «creature ferite», così scrive Garavini nella sua Prefazione, portano scolpito dentro la carne il marchio di una stessa «deplorata condizione femminile». Né oscilla il fuoco dell’interesse narrativo quando lo scenario si sposta indietro verso la Storia, e la fantasia visionaria dell’autrice di Artemisia si accende immaginando la malinconia di Beatrice Portinari o di Laura De Sade. È un’intenzione esatta che anima anche le figure femminili dell’autobiografia, la mamma, la zia giovane, la nonna disegnate in Itinerario di Paolina (1937), il romanzo d’esordio, più volte riprese e infine riproposte nei brani conclusivi dei Racconti ritrovati. La curvatura dello stile, dalla preziosa torsione dell’inizio alla lineare sobrietà delle pagine finali, misura il percorso straordinario di Anna Banti.
«Le sue possibilità le son sempre parse limitate: l’hanno aiutata il dubbio e l’orgoglio. Però ha seguitato a lavorare a modo suo, superando amarezze, rimorsi, travagli. Ha ancora la penna in mano, ci si diverte con una specie di sprezzo allegro». In uno dei racconti, è il 1978, la narratrice incide il suo ritratto. A ottantatré anni si dipinge come una signora che vive in «una solitudine di ferro» e «ha dietro le spalle una lunga vita di lavoro e lunghe riflessioni sulla pietra d’inciampo d’essere nata donna». Lei non lo scrive ma lo sa di avere seguito la vocazione giusta. Respira nel libro e in quelle righe una donna che si è conquistata il proprio nome. Una scrittrice che trovando la sua voce ha riconosciuto senza mancarlo il suo destino portentoso.