Peggio di noi c’è solo la Grecia. Per il resto l’Italia si piazza come fanalino di coda in Europa vantando (si fa per dire) il divario di genere più ampio in ambito lavorativo tra uomo e donna. E poco importa se negli ultimi anni si è registrato qualche timido passo in avanti per quanto riguarda la partecipazione femminile al lavoro, come ad esempio quel 20% in più registrato tra le donne laureate nelle cosiddette materie Stem (scienza, tecnologia, ingegneria e matematica), quelle che poi nel mercato fanno registrare le aspettative di reddito più alte. Oppure il maggior numero di presenze nel Cda delle società quotate, passato dal 7,4% del 2011 all’attuale 47%. Non basta, e si tratta comunque di progressi relativi che non cambiano la sostanza: «Il tasso di partecipazione femminile è a un livello molto basso rispetto alla media europea e siamo al di sotto di quel 60% che era stato indicato come obiettivo da raggiungere entro il 2010 dall’Agenda di Lisbona e dai traguardi impliciti nell’Agenda Europa 2020», ha denunciato ieri la vicedirettrice generale della Banca d’Italia Alessandra Perrazzelli presentando il rapporto «Le donne, il lavoro, la crescita economica».

Lo studio sul gender gap offre una situazione del mercato del lavoro italiano che del resto non lascia spazio a dubbi: l’occupazione femminile al 51,1% è inferiore di oltre 18 punti percentuali rispetto alla quota di uomini al lavoro nella fascia d’età tra i 15 e i 64 anni, registrando così il secondo divario di genere più ampio in ambito lavorativo tra i paesi dell’Unione Europea, dopo appunto la Grecia. Per quanto riguarda il gap salariale il differenziale è già ampio all’ingresso nel mercato del lavoro: il 16% tra i diplomati, il 13% tra i laureati e si accentua ancora di più con la maternità e con l’avanzare della carriera. Per le occupate, poi, sono più frequenti gli impieghi di tipo temporaneo (18% delle donne occupate alle dipendenze, 16 per gli uomini) e il part-time (31,7% delle lavoratrici, 7,7 dei lavoratori), soluzione questa che non sempre è frutto di una scelta delle donne.

Anche la maternità, come si è detto, rappresenta un ostacolo nella ricerca di un lavoro e nell’avanzare della carriera. Il rapporto di Bankitalia evidenzia infatti come le differenze si accentuano soprattutto dopo la nascita dei figli. La probabilità per le donne italiane di non avere più un impiego nei due anni successivi alla maternità è quasi doppia rispetto alle donne senza figli; questa differenza, benché si attenui nel tempo, è rintracciabile almeno fino a 15 anni dalla nascita del primogenito.

Anche per quanto riguarda il gender gap, infine, le situazioni più difficili si registrano a Sud: «Nel Mezzogiorno – ha proseguito Perrazzelli -, a tassi di partecipazione particolarmente bassi per entrambi i generi si associa un divario uomo-donna pari a oltre 25 punti percentuali nel primo trimestre di quest’anno (circa 14 punti nel Centro Nord)».