Bandini, l’altra sponda dell’umanesimo
Ricordi In memoria del poeta vicentino che voleva dare un «senso alle cose» e aveva una fede incrollabile nella parola
Ricordi In memoria del poeta vicentino che voleva dare un «senso alle cose» e aveva una fede incrollabile nella parola
Un’incrollabile fiducia nella parola era la cosa che mi colpiva di più in Fernando Bandini, in una parola che fosse, insieme, speciale e comune, tellurica e quieta, che portasse la domanda sulla verità dell’umano e il senso, concreto e indefinibile, in una «forma», quella della poesia, nel tentativo di «dare un senso alle cose». Adesso che dolorosamente parlo di lui all’imperfetto, m’accorgo che il posto vuoto è anche la perdita di quella «fede» nel verso, che pure si fa eredità consolidata di chi si trovava «in fiero disaccordo col tempo», implorando le Muse di riavere «un’ora dell’antica carità». Nei molti incontri avuti in un’amicizia più che trentennale che ci legava e comprendeva la fraternità condivisa per e con Paolo Lanaro, ci si trovava al crocevia del crederci o del vacillare sulla possibilità che la parola potesse ancora campeggiare sul nome comune, illuminare il buio dei passi, tra artificio e natura, dare retta al bambino che dentro di lui «protesta e si lamenta», sopravvive «in un corpo / imprevisto ed alieno». Lo sguardo umile (secondo l’amato Saba) e interrogativo del fanciullo è forse l’unica certezza indistruttibile che Bandini ha difeso ed affermato lungo tutto il sentiero dell’esistere, che ha portato con sé nel silenzio; quello sguardo ha veduto la Storia attraversata dalle sue giovani gambe, testimone dello strazio e della grazia, affiancando l’adulto e poi il vecchio, sempre sul precipizio delle righe, dei versi, affacciato pasolinianamente sull’abisso segnato da un aggettivo che a Bandini pertiene più di chiunque altro, «ingenuo», nell’accezione etimologica che lo vuole nobile, degno, sincero, libero. Bandini ha testimoniato la fedeltà ad un umanesimo che fosse l’altra sponda del reale privato e civile, della sua crudeltà e violenza, del suo sfregio, delle sue lesioni; via via, la sua poesia ha assunto anche la fisionomia riconoscibile e forte di un atto politico, di una presa di posizione morale contro l’immoralità cinica che lavora per cancellare Storia e memoria ed è, nei fatti, l’esecutore che agisce su mandato del nulla. Ho capito il suo disegno quando ho lavorato alla composizione di un libretto prezioso apparso, sotto l’insegna de L’Obliquo di Brescia di Giorgio Bertelli, nell’aprile 2010, Quattordici poesie con tre note di Pietro Gibellini, Massimo Raffaeli e del sottoscritto.
Il fitto scambio di lettere e bozze denotava la cura paziente nei confronti dei testi, dell’assetto, delle misure, delle partiture. Ne venne fuori un lavoro splendido annunciato dall’azzurro-cielo della copertina, colore che ho sempre associato a lui per limpidezza e grado di intensità della sua voce scritta. C’è un punto preciso, in quelle cinquantasei pagine, che rende esplicite e struggenti queste ore «dell’ammanco» sereniano e bandiniano: mi riferisco a L’invasione dei beccofrusoni nell’inverno 2004-2005 che consegna questa inequivocabile clausola: «Perché così sarà la fine della storia: uscire dalla luce del troppo breve giorno/in cui sono vissuto e dire addio/ai miei cari compagni e all’universo».
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