Bambini da marciapiede
Reportage Gli "street children" in Egitto sono un fenomeno che sta crescendo in maniera esponenziale, una piaga sociale che va affrontata da tutta la comunità. Parla la dottoressa Abla El Badry, direttrice dell'Hope Village
Reportage Gli "street children" in Egitto sono un fenomeno che sta crescendo in maniera esponenziale, una piaga sociale che va affrontata da tutta la comunità. Parla la dottoressa Abla El Badry, direttrice dell'Hope Village
Un bussare improvviso, sul finestrino, poi due mani minuscole si appiccicano al vetro e il visino dolce, sorridente e melanconico di una bambina di 5 anni chiede un lira egiziana o vende un pacchetto di fazzolettini per la stessa cifra. È una Street Children, una dei bambini di strada, che prima della rivoluzione annoveravano a circa 1,5 mln (stime Unicef http://www.unicef.org/infobycountry/egypt_statistics.html) e che oggi, dopo la crisi economica, sono aumentati vertiginosamente. Gli SC si incrociano nei quartieri residenziali de Il Cairo ed Alessandria, a Tahrir e all’uscita delle fermate della metro, dove vendono fazzoletti di carta o mazzi di fiori.
La storia di Mosen e delle sue figlie Rania, di 14 anni, e Dina, di 12, è emblematica. Dormono e vivono in strada. Mosen è sempre seduto sul marciapiede di Zamelk (Il Cairo), sempre nello stesso posto, sopra il suo letto di stracci e coperte consunte dove dorme la notte, legge il giornale divorando le notizie come se gli potessero cambiare la vita. È magro, indossa un collare da ospedale e gli stessi abiti consunti tutti i giorni. Le figlie zigzagano tra le macchine chiedendo l’elemosina. Mosen ha perso il lavoro e la casa nel 2007, la sua bancarella di sigarette fu espropriata dalla polizia per far posto a una multinazionale nella stazione dei treni di Ramsis. Lo stesso anno si è separato dalla moglie di cui non sa più nulla, se non che vive nella baraccopoli di El Munib. Lo stesso degli altri cinque figli: la maggiore è scappata di casa nel Ramadan del 2009 a 12 anni per non fare più ritorno.
La dottoressa Abla El Badry, direttrice dell’Hope Village, una Ong egiziana che collabora ufficialmente con l’Unicef dal 2003, analizza il problema: «Oggi si possono vedere intere Street Families! La crisi economica ha portato sul marciapiede migliaia e migliaia di famiglie che non riescono più a sfamare i propri figli e a pagare l’affitto di casa». La povertà, che nella terra del Nilo si aggira intorno al 45% (Mahassen Mostafa Hassanin, Egypt: A Poverty Profile. The Copenhagen Paper N. 2.) e l’estrazione sociale, con alte punte di analfabetismo, come le violenze domestiche e gli abusi sessuali dei parenti sono le cause della fuga verso la strada.
Gli SC non vivono soli, ma in branco. Tra i membri si creano legami di lealtà che superano il concetto stesso di amicizia. Le regole della strada sono spietate e a nessuno è permesso infrangerle, chi vive da solo viene obbligato a unirsi al gruppo, se si rifiuta può rischiare di essere linciato.
Le relazioni che si instaurano tra i membri sono profonde, il branco sostituisce gli affetti della famiglia d’origine, il legame è così forte che un membro può sacrificare anche la propria vita per il bene degli altri.
Ma ciò non li protegge dai rischi di malnutrizione, da avvelenamento da cibi tossici o da inquinamento, da tubercolosi, colera, anemia. Sono condannati a una vita senza futuro e senza prospettive se non quella di divenire rivenditori abusivi o manovalanza delle mafie di quartiere.
Dagli anni ’90 la situazione non è cambiata di molto, e le fila degli SC sono andate ingrossandosi di pari passo con l’aumento demografico. «Le politiche sociali in Egitto non aiutano, non sostengono economicamente le famiglie. Se si ottengono dei risultati con 100 bambini, ce ne saranno altri 2000 che nel frattempo si riversano in strada», afferma la dott.ssa Abla.
Negli ultimi 25 anni la società è stata sensibilizzata, i bambini non vengono visti solo come dei reietti, ma come individui da aiutare, sebbene, dopo la rivoluzione le cose siano peggiorate.
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I ragazzi e i bambini di strada erano a Tahrir insieme agli altri dimostranti chiedendo pane, giustizia, libertà. «È stato il periodo più bello della loro esistenza, perché in quel momento non erano discriminati, erano parte della comunità, uguali a tutti gli altri cittadini. Ora sono disillusi, sono diventati molto più aggressivi, scatenando la loro rabbia contro i centri di potere per le promesse non mantenute. Gli egiziani hanno visto i bambini in tv bruciare i palazzi istituzionali, ed ora siamo tornati al punto zero», aggiunge la dott.ssa Abla. Per arrivare a un cambiamento, la psicologa dell’Hope Village, Shayma Abdel Kader reputa importante il ruolo dei media «che devono sensibilizzare la gente parlando e scrivendo dell’argomento e della prevenzione. La possibilità di identificare le diverse tipologie di famiglie i cui figli sono a rischio di fuga: famiglie numerose, povere, di divorziati o separati».
Il problema è a monte, parte dall’educazione e dalla formazione infantile: «Nelle baraccopoli esiste una speciale relazione tra la gente che ci vive. Ci sono intere famiglie che condividono lo stesso bagno; non è solo il nucleo familiare ma tutto un insieme di persone estranee, che ruota intorno al bambino il quale ha l’impressione di vivere come in strada perché non ha spazi delimitati come in una casa vera e propria. Il lavoro dell’Hope Village è quello d’insegnare a queste famiglie come far capire ai propri figli qual è il loro luogo di appartenenza».
L’aumento degli SC è dovuto anche all’elevato numero di ragazze madri, divorziate o abbandonate dai mariti. Dopo la precaria condizione economica, una delle maggiori cause di divorzi sono i maltrattamenti domestici e l’obbligo alle prestazioni sessuali (circa 62%,Violence against women, L. Kaplan, Marwan Khawaja and N. Linos). La protezione e l’assistenza sociale statale in Egitto sono prossime allo zero, così molte donne devono riversarsi in strada per racimolare i soldi per mantenere i propri figli. Come Mona Mohamed Ali, fa sacrifici per mantenere il piccolo appartamento in affitto nello slam di El Munib e mandare le due figlie maggiori alla scuola elementare, mentre la piccola di tre anni, Luji, è con lei sul marciapiede. Per le ragazze madri non esistono strutture in grado di aiutarle e di reintegrarle nella società. Una single mother continua ad essere considerata male dal resto della società che non riconosce il suo status, e la trasforma in un corpo estraneo alla collettività, emarginandola. «Le donne che abitano sul marciapiede, vivono in una comunità separata, dove la morale e lo sdegno comune rimangono fuori», puntualizza Imam Mostafa, direttrice di Banati, un’altra Ong che si prende cura delle bambine di strada. «Per cancellare il disonore, molte ragazze madri anelano al matrimonio come soluzione per iniziare una nuova vita, ma non sempre con il padre biologico.
Spesso i mariti non accettano il figlio illegittimo e forzano i piccoli ad abbandonare la famiglia, attraverso maltrattamenti domestici e abusi sessuali, i piccoli vanno così ad ingrossare le file degli SC». La stessa dinamica vale per le divorziate, che sono costrette ad abbandonare i propri figli a loro stessi.
Prima del 2008 la situazione era ancora più difficile, perché alle donne non era concesso di registrare la nascita di un bambino che, di fatto, non esisteva per lo Stato. Da allora è stata approvata una legge che concedeva alle madri di dichiarare il nascituro. Anche se ha costituito una grande conquista a livello legislativo nel panorama mediorientale, tuttavia «la legge è rimasta solo sulla carta e non è esecutiva. Quando un’egiziana si reca all’anagrafe, l’impiegato di turno si rifiuta perché le norme non hanno un decreto applicativo», aggiunge Imam Mostafa.
Un quarto degli SC è costituito da ragazze e bambine. Sono più vulnerabili, subiscono abusi e violenze, soprattutto sessuali. Possono rimanere incinte facilmente, hanno più possibilità di contrarre malattie infettive, sono esposte a molti tipi di pressione e problemi psicologici. La terapia di riabilitazione è più lunga di quella dei loro coetanei maschi. Durante la rivoluzione, i soprusi da parte della polizia sono stati numerosi e gli SC hanno pagato un prezzo alto. Il rapporto di Amnesty International (MDE 12/017/2012), certifica il vasto numero di sevizie e di stupri perpetrati dalla polizia in cella. Abdel Kader spiega le dinamiche di uno dei 14 centri dell’Hope Village. «Cerchiamo di capire quali sono le vere esigenze delle ragazze madri. Alcune rifiutano di lavorare e di diventare indipendenti e autonome perché hanno paura di vivere da sole. Una volta che la terapia nei nostri centri è terminata, individuiamo una comunità dove possono risiedere insieme ad altre. Poi cerchiamo loro un lavoro. Lasciano i piccoli ai nidi e si aiutano a vicenda».
Il lato psicologico è molto importante. Aiutare una bambina che ha subito traumi in strada e l’abbandono della famiglia è molto difficile. «La ragazza madre non si fida. Vive in uno stato di paura permanente», aggiunge Abdel Kader. «Insegniamo che esiste un sistema e una struttura verso cui essere responsabili, che ci sono delle norme da seguire. Rimangono casi in cui la ragazza madre vuole ritornare in strada perché non è disposta a sottostare a regole».
La questione degli SC diventa ancora più ampia se si considera un aspetto che risulta tanto agghiacciante quanto reale. «Una ragazza di strada può partorire ogni anno e affitta per intere settimane i figli per andare a mendicare, senza che facciano ritorno a casa. In alcuni casi, li vende a intermediari che li offrono poi a famiglie all’estero o ai trafficanti di organi (Combating Child Trafficking, Al Horreya Association). La ragazza è cosciente che può fare qualsiasi cosa con il bambino» (Abla). La prole diviene in questo modo fonte di guadagno e di sfruttamento da parte delle mafie cittadine. «Durante la rivoluzione gli Street Youth – continua – i ragazzi più grandi, sono diventati dei veri e propri capibanda in grado di sfruttare i più piccoli. Sono dell’idea che negli ultimi anni l’aumento dei bambini di strada è stato favorito dal regime precedente per sfruttare questi soldatini del disordine al momento opportuno, come è avvenuto durante la rivoluzione».
La percentuale di successo dell’Hope Village si attesta a percentuali basse, circa il 20%. Mentre è relativamente facile sradicare dalla strada un bambino che c’è stato per pochi mesi, non lo è altrettanto per chi ci vive da anni o da tutta una vita. C’è una sorta di affezione-abitudine verso la strada. «Sono individui che si trovano in uno stato di libertà assoluta, possono fare qualsiasi cosa senza inibizioni, senza limiti: non devono andare a scuola, non devono lavorare, non devono rendere conto a nessuno delle proprie azioni…», sottolinea la dottoressa Abla. Lo stesso concetto viene ribadito dalla psicologa Abdel Kader: «Ci sono bambine che sono nate in strada che hanno un’esperienza maggiore delle adolescenti. Possiedono una capacità di controllo fuori dal comune. Mentre vendono fazzolettini vigilano sul poliziotto che perlustra la zona, sulla macchina che potrebbe investirle, sull’adulto che le guarda insistentemente… tutto per essere pronte a scappare al primo segnale di pericolo».
Abla non riesce a colpevolizzare gli SC. «Tutti noi egiziani siamo colpevoli di questa calamità. Il governo ha le sue responsabilità, non ha mai adottato politiche che riuscissero a ricongiungere i bambini di strada con i propri nuclei familiari, che migliorassero la condizione economica e sociale delle famiglie. Spesso gli SC sono additati come teppisti di strada, ma siamo tutti noi i criminali che abbiamo permesso che ciò accadesse».
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