«Ehi, Russo ! (l’interlocutore sempre presente nelle liriche di Kartel, è un ragazzino della Kingston-bene che cura gli arrangiamenti musicali, chiamato così per via della carnagione chiara e i capelli rossastri, nda). Ma che chiami a fare la polizia? Quelli non possono fermare il crimine, i ragazzi dei ghetti vogliono soldi da spendere, per questo tanta gente muore ammazzata” (Coro) “La la la la la vita è dolce…” “I giovani dei ghetti fanno una vita più dura, spesso crescono senza padre, alla fine diventano gangster… spesso mi alzo e non ho nulla, le tasche sono vuote, ma almeno un proiettile c’è sempre nella mia ’nove’ (Beretta calibro 9). La radio (della polizia) che gracchia non può fermare il crimine. Ti parlo dal cuore, quelli sprecano tempo, loro non vogliono che noi del ghetto possediamo qualcosa, così quando vedi il sangue scorrere nelle strade come bevute nei bar, non chiamare la polizia, piuttosto chiama qualcuno che porti denaro, perché i poveri del ghetto i soldi vogliono» (da Life Sweet di Vybz Kartel).

Adidja Palmer, in arte Vybz Kartel (Cartello delle Vibrazioni) è il poeta «maledetto» della dancehall giamaicana. Per la prima volta, nella storia della musica di questa nazione, famosa per il reggae, Kartel non è l’artista da mungere monopolio dei produttori – angloamericani o cinesi – che hanno caratterizzato il retroscena musicale fin dai tempi di Bob Marley (Chris Blackwell, promoter di Bob fino alla sua morte, ne è stato l’esempio classico) ma, al contrario, il musicista nero che diventa produttore di se stesso e dei suoi «compagni di strada», fondatore di una label indipendente, Gaza, che oggi è una fucina inesauribile di giovani talenti che provano a farcela.

La dancehall nasce ufficialmente negli anni ’80, rispondendo a un pubblico che richiede un genere musicale che vada oltre i soliti argomenti del reggae classico, ossia religione e critica al passato coloniale. Sebbene Robert Nesta Marley abbia avuto il merito di portare le condizioni sociali della Giamaica e dell’Africa sub-sahariana all’attenzione internazionale, questo successo è stato sfruttato, dopo la morte del suo profeta, dalla famiglia dell’artista e da produttori avidi per altri scopi, per cui il messaggio originale si è perso per strada.

I suoi successori, tra i quali Dennis Brown e Gregory Isaacs, non hanno rinnovato i concetti base della loro dottrina, che sono: la celebrazione dell’Imperatore di Etiopia Hailè Selassiè, il Negus del periodo coloniale italiano, adorato dal Rastafanesimo come erede divino del Re Salomone; e l’attacco a «Babylon», il Potere corrotto.

Concetti nobili, che però hanno sempre meno a che fare con le miserie quotidiane del giamaicano medio. Oggi questo genere è chiamato «root reggae», il reggae delle radici, ma è sempre meno popolare.

L’inizio

Con la dancehall, le piccole vicende giornaliere, le condizioni sociali dure dei ghetti, l’amore carnale, diventano argomenti base. E poiché le persone hanno soprattutto bisogno di distrarsi, sesso, duelli canori tra gli artisti e pistolettate, mimate e reali, sono gli ingredienti principali delle session dal vivo.
L’avvento del computer subentra alle grandi orchestre dei Wailers (la band originale di Marley e Peter Tosh) e dei Third World, sostituendo al sound system (monumentali amplificatori piazzati lungo la strada) le drum machine (apparati elettronici che imitano il ritmo delle percussioni) e i mixer digitali, tutta la strumentazione classica costituita da chitarra, basso, fiati, tastiere e batteria. Il linguaggio diventa onomatopeico, il creolo giamaicano, conosciuto come patois (si pronuncia «patua»), è la versione anglofona di quello haitiano, e con i suoi termini contratti, si adatta perfettamente al ritmo cadenzato del sound. Il raggamuffin di Barrington Levy, una delle voci più belle che la Giamaica abbia partorito, inaugura questa nuova tendenza nel 1980.

«Barry» canta di viaggi allucinanti su minibus sovraffollati, di conti da pagare con i soldi che non bastano mai, di ganja (marjuana) proibita, scusa che la polizia usa per sbattere dentro la gente, e tematiche del genere. I ritmi della dancehall si fanno più veloci rispetto al reggae (che fondamentalmente era una versione rallentata dello ska) sulla falsariga dell’hip hop statunitense, con il quale però a livello musicale non ha nulla da spartire, a parte le rime a tema. Il «riddim» è ossessivo, ma nello stesso tempo accattivante, gli ingegneri del suono giamaicani fanno miracoli nel riprodurre versioni elettroniche delle basi strumentali. Con l’esordio in scena di Moses Davis, nel 1994, in arte Beenie Man, la dancehall diventa cabaret; l’artista è eclettico, rifugge da temi seriosi, con un senso del sarcasmo spesso così sottile da non essere afferrato in pieno. Parla di sesso soprattutto, con lui nei panni di grande amatore, una «sex machine» di cui le donne non possono fare a meno: «Se vuoi una bella sistemata chiamami, chiamami se vuoi una sbattutina, chiamami se vuoi rimettere a posto il tuo ’punto G’ chiamami, io ho l’alternativa, ci penso io, a dispetto della solita solfa, questa è un’altra musica, e qualcuno deve suonarla. Sento ragazze chiamarmi, sento ragazze piangere, ragazze che singhiozzano e implorano, lei ha visto ’Beenie’ (da Dudus di Beenie Man). Sebbene l’argomento sia volgare, il modo con cui l’artista si propone al pubblico, è spassoso. Il ritmo è simile a quello di una tarantella pugliese, le mimiche sessuali di Beenie Man sono così buffe che il pubblico femminile, invece di sentirsi offeso, si sganascia dal ridere: lo spettacolo è assicurato. Purtroppo molti uomini lo prendono sul serio, e il machismo giamaicano è peggiorato da quando la dancehall è prevalsa sul reggae… difatti non tutti i cantanti hanno la sua classe, e spesso gli show attuali diventano una vetrina di testosterone esposto a 360°.

Con Beenie Man, nasce anche il «clash» tra gli artisti, lo scontro, i duelli canori che, a colpi di rime e spietati sfottò, talvolta sfociano anche in risse sanguinose, come quella storica del 1998 al Sumfest di Montego Bay, dove lo scontro tra Beenie e Bounty Killer degenerò in una battaglia tra le due fazioni a colpi di coltello e bottigliate, che fece a pezzi il palco, causando numerosi feriti anche gravi. In seguito a ciò ai due furono vietate le esibizioni live. Torniamo per un istante a Kartel e al pezzo Life Sweet il cui testo può essere valutato con due parametri diametralmente opposti, entrambi validi. Il primo riguarda la denuncia sociale: sebbene i ghetti giamaicani, in particolare quelli di Kingston, siano sempre stati usati dai politicanti del governo e dell’opposizione come feudi elettorali (i famigerati Garrison), i loro abitanti, dalla proclamazione dell’indipendenza nel 1962 a oggi, non hanno beneficiato di un benché minimo miglioramento. Quello storico di Trench Town, presidio del Pnp (People National Party) dove il giovane e poverissimo Marley aveva iniziato la sua travolgente carriera, è più o meno come 35 anni fa; baracche di lamiera o mattonato grezzo quando va bene, allacci elettrici pirata, assenza di fognature e scarsità di acqua corrente; venne costruito secondo il principio degli «yards», enormi cortili ricavati dalla divisione dei lotti di terreno tramite muraglie cieche, che avevano lo scopo di rallentare le fughe dei malfattori durante le retate della polizia; in realtà questi spazi vennero sfruttati come piccole «agorà» dove la gente si incontrava per discutere problemi familiari e di condominio. Da qui il termine «Yard culture» coniato dallo stesso Bob Marley che, insieme ai giovani talenti del quartiere, usava i cortili come sale di prova per suonare.

Nei testi dei suoi primi successi, si fa spesso riferimento alla «government yard» come termine per definire Trench Town. Oggi, a differenza di allora, esiste anche una piccola biblioteca, ma la palazzina di due piani a Second Street, dove Bob ha abitato per tanti anni insieme alla madre, è crollata di recente uccidendo alcuni dei suoi inquilini. Denham Town e Tivoli Gardens, i ghetti del partito rivale Jlp (Jamaican Labour Party) furono fatti edificare dal leader storico di questo partito, Edward Seaga, più volte primo ministro, eliminando la regola edilizia dello «yard» per sottolineare il solco che divide i partiti rivali. Orrendi palazzoni, veri e propri alveari umani, dotati di un solo bagno per edificio, ovviamente non funzionante, a disposizione delle centinaia di famiglie che vivono laggiù. I muri di queste obsolete costruzioni sono in gran parte sforacchiati dai proiettili M-16 delle forze speciali della polizia, che soffocarono nel sangue la rivolta del 2010, con circa ottanta perdite civili dichiarate; il conteggio reale non è mai pervenuto ai media, così come i nomi degli uccisi.

La criminalità in Giamaica miete tra le 1500-2000 vittime circa ogni anno; questa cifra è incrementata da centinaia di omicidi giudiziari, causati da una polizia che, spesso e volentieri, spara a casaccio, uccidendo persone innocenti, oppure giustizia a sangue freddo i sospetti di crimini. A fronte di una disoccupazione ufficiale che si aggira intorno al 25-30%, nei ghetti si toccano punte del 50-60%. Gli edifici scolastici sono fatiscenti, e spesso il solo traguardo che le famiglie possono permettersi, è quello di far arrivare i figli alle scuole medie, senza la certezza di poter completare il corso di studi.

Il secondo parametro di lettura del pezzo riguarda il self-pity, l’auto commiserazione: al di là della verità racchiusa nella canzone di Kartel, i residenti dei ghetti non sono tutti impiegati nella manovalanza criminale, anzi; oltre la metà di questi, prova a fare una vita onesta, accettando l’umiliazione di lavori sottopagati nel centro di Kingston o nei sobborghi industriali di Marcus Garvey Drive, oppure gestendo piccole rivendite ambulanti di generi di consumo; a costoro non va assolutamente bene essere accomunati alla delinquenza, spesso ne sono vittime, essendo queste comunità sotto il controllo di Area Don (il Boss del quartiere), guardia spalle del politico locale; ad entrambi serve manovalanza; al Don per gestire i traffici di droga e come gun men (sicari), al politico come protezione. E le famiglie del quartiere sono l’unico serbatoio a cui attingere a tale scopo. Per questa ragione, giustificare, come fa intendere Kartel, il crimine ai fini della sopravvivenza, acuisce il conflitto sociale. A questo si aggiunge l’ossessione del denaro, adorato come una divinità, sul cui altare immolare qualsiasi valore. Nel pezzo Dollar Sign questo concetto è lampante: «Wi a pree di dollar sign» (nel segno del dollaro noi preghiamo).

Come succede di sovente nei ghetti statunitensi, dove tanti rapper uccidono o rimangono uccisi durante gli scontri con i propri rivali (la sorte che ha subito il celebre Tupac si eleva a simbolo) anche Kartel sta percorrendo lo stesso itinerario; allo stato attuale è in prigione senza possibilità di libertà provvisoria, in attesa del processo finale che lo vede imputato per cospirazione ai fini di omicidio e possesso di arma da fuoco. Eppure, sebbene in carcere, la sua attività continua; scrive nuove canzoni e produce talenti, quali Black Ryno, Jah Vinci, Popcaan. Tra questi il più brillante allo stato attuale è il giovanissimo Tommy Lee, «the two voices man», un diciannovenne al quale la natura ha donato una voce in grado di assumere due tonalità così differenti da far pensare, all’ascolto, a due cantanti diversi, tenore e baritono; la storia di Gaza continua, aldilà della caduta del suo «Imperatore».

Compassionate Act

Nel 1988, un ragazzino di soli 15 anni, Anthony Myrie, arriva alla ribalta internazionale con un pezzo choc che scuote l’opinione pubblica non solo giamaicana: Boom Bye Bye, il cui titolo fumettistico si può tradurre in : «Sparagli e digli ciao». Il ritornello della canzone si completa con la frase «…in the batty bwoy head» nel dialetto patois «batty bwoy» è un termine dispregiativo per definire i gay. In pratica è un invito a sparare in testa agli omosessuali!

In molti stati dei Caraibi, anglofoni e non, l’omosessualità è mal tollerata; in Giamaica è ancora fuorilegge, e le coppie gay sono costrette a vivere in incognito. Il pezzo scala le classifiche di tutto il mondo, superando nelle vendite addirittura il mitico brano di Bob Marley Legend. Anthony è ribattezzato con il nomignolo di Buju Banton. Il successo planetario dà alla testa all’ex ragazzo; Anthony Myrie, non accontentandosi del torrente di denaro che la notorietà gli ha concesso, si fa coinvolgere sempre di più nel traffico di cocaina – che usa gestire anche durante i suoi stessi concerti; finito nel mirino della Dea, è condannato a una pena di detenzione lunghissima da scontare negli Usa; si può facilmente immaginare quale possa essere il suo destino nelle galere americane, laddove la posse gay è molto potente, e non gli ha mai perdonato i suoi trascorsi giovanili.

Allo stato attuale, dopo numerosi dibattiti, e il divieto negli Usa di tenere concerti con testi offensivi nei confronti degli omosessuali, tre artisti, Beenie Man, Capleton e Sizzla, hanno sottoscritto il Reggae Compassionate Act, nel quale si impegnano a non divulgare più il messaggio omofobico, sia nelle ultime composizioni, che nelle ristampe di quelle passate. In Giamaica invece questo impegno non è sempre rispettato. Uno degli autori che hanno inciso di più nel dipingere musicalmente i caratteri della società giamaicana, è Rexton Gordon, conosciuto con lo pseudonimo Shabba Ranks. Autore dai testi incisivi, nel suo capolavoro Rappin’ with the Ladies, duetta con artiste del calibro di Diana King e Chevelle Franklin. Vediamolo nel brano Twice My Age: «’Amo un uomo che ha circa il doppio della mia età, non so bene cos’è, ma è un bel colpo che viene dalla mia giovinezza; e faccio a modo mio, non mi frega niente di quello che dice la gente’. Lei non cerca le smancerie degli innamorati, lei vuole i soldi! Un giovanotto ha l’energia, ma questo è inutile; lei vuole un uomo che la possa ricompensare… È vero! Deve pagarsi l’affitto, la bolletta della luce… fino a quando la tua tasca manterrà la sua capienza, ciò la porterà a dire che il suo uomo è pieno di energia nelle reni!».

Feroce nella sua satira, Shabba descrive alla perfezione la figura maschile dello Sugar Daddy il tipico uomo d’affari di mezza età, che approfitta dello stato di cronica indigenza che affligge l’isola, con un costo della vita altissimo comparato a salari spesso ridicoli… per una ragazza carina senza aiuti da parte della famiglia, l’obiettivo principale rimane quello di accalappiare l’uomo maturo dai 45 anni in su, in grado di aiutarla a pagare i suoi conti… e in una società globalizzata, avvolta dalle nubi della crisi finanziaria internazionale, questa è una prerogativa non solo giamaicana. Shabba Ranks è stato al vertice della dancehall per lunghi anni, vincendo due Grammy Awards e piazzando in cima alle classifiche internazionali i suoi album. Sarà poi spazzato via dal ciclone Beenie Man alla fine degli anni ’90.

La dancehall giamaicana, grazie ad artisti quali Beenie, Sean Paul e Shaggy, ha superato nelle classifiche l’hip hop Usa piazzandosi immediatamente dietro al soul moderno, lo stesso di Alicia Keys e Whitney Houston. Un’ultima considerazione. Il perbenismo locale accusa le liriche nichiliste del nuovo reggae, di essere la causa della violenza urbana e domestica che affligge l’isola, confondendo volutamente il sintomo con la malattia. In realtà la musica in Giamaica esprime solo una sorta di processo darwiniano al contrario; l’involuzione di un sistema post coloniale impermeabile ai cambiamenti, che accresce la bramosia per i beni materiali, causa l’inadeguatezza dei salari e la frustrazione di lavori poco dignitosi. Il deficit culturale completa il quadro, sfogando in pregiudizi verso i settori più deboli della popolazione. Malgrado ciò, a differenza dell’hip hop, il fine della dancehall dal vivo è quello del divertimento, e, dopo uno show, è più facile vedere gente allegra che violenta; insomma si balla per non esplodere. A oggi questa filosofia di vita ha evitato conseguenze peggiori. Per ora.