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Ballen, il perturbante che transita in casa

Ballen, il perturbante che transita in casaRoger Ballen, "Prowling", 2001 © Roger Ballen

A Milano, Fondazione Sozzani, "Roger Ballen, The Body, The Mind, The Space" Pose disturbate, inquietanti still-life... L’artista-fotografo newyorkese ci indica nella sua ricerca (che va letta per strati emozionali) due stadi della percezione: reale e psichica

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 23 giugno 2019

Fin dai suoi esordi di fotografo Roger Ballen (New York, 1950) non ha voluto essere un documentarista, d’altronde ha dichiarato che per lui «‘Realtà’ è una parola che non ha alcun significato». Arrivato agli inizi degli anni ottanta a Johannesburg come consulente minerario, già nei suoi primi racconti fotografici era chiaro che ricercasse altro, come in Drops (1986), il racconto per frammenti dalle piccole città rurali sudafricane, e prima, Boyhood (1979), esercizio quadriennale intorno al soggetto dell’adolescenza indagato nei suoi viaggi intorno al mondo per affermare le affinità dell’età e non le sue differenze. È in direzione, quindi, dell’esteticamente significante che si è orientato il suo sguardo, andando persino oltre il medium della fotografia come si può vedere nella retrospettiva alla Fondazione Sozzani dal titolo Roger Ballen, The Body, The Mind, The Space (fino all’8 settembre). Nella galleria milanese, infatti, l’artista-fotografo impiega tre differenti mezzi per comunicare: oltre alla selezione degli scatti – che ripercorrono le tappe della sua ricerca fotografica –, i video, ai quali deve buona parte della notorietà (I Fink U Freeky, 2012; Asylum of the Birds, ’14); infine, posta defilata all’ingresso della mostra, una installazione che combina un manichino di una signora dall’aspetto borghese seduta su una poltrona, accanto una lampada a stelo accesa, con intorno il disegno infantile sulle pareti di grandi figure dall’aspetto un po’ mostruoso.
Fantocci e chincaglierie
È evidente che Ballen già nell’incipit espositivo voglia indicarci due stadi della percezione: reale e psichica, immanente e sovrasensibile, naturale e artefatta. Questi si sciolgono come per magia in stanze (The Space) nelle quali i personaggi rappresentati – fotografati o raffigurati in fantocci – convivono con ogni genere di chincaglieria, rifiuti o oggetti d’uso quotidiano, ma in particolare animali domestici e selvatici (gatti, uccelli, ratti). Nel corso degli anni lo spazio di Ballen si è progressivamente ristretto, per riprendere figure mascherate e dalla posa disturbata, fino a ridursi alla superficie di un muro: la scena entro la quale disporre inquietanti still life. Il confronto tra due immagini, ambedue esposte, rende chiaro il passaggio: Froggy Boy (1977) e Prowling (2001). Si tratta di ritratti a figura intera di un ragazzo. Il primo è fotografato all’aperto, indossa un costume da bagno e guarda divertito una rana che tiene stretta in una mano, mentre con l’altra stringe le scarpe da ginnastica; il secondo è all’angolo di una stanza, indossa pantaloni corti e sul volto ha una maschera: guarda la sua destra insanguinata, le cui impronte sono state fissate sul muro bianco che gli è dietro, e trattiene nella sinistra un sottile bastone, forse l’arma del delitto appena consumato di non si sa quale essere vivente. In circa vent’anni si compie il transito verso luoghi terribilmente sofferenti, ma altrettanto reali di quelli che all’inizio comparivano sani, ma forse solo in apparenza. Ora, molto si può dire di questi ritratti, ma è evidente che il punctum barthesiano, ovvero il rilevante indizio emozionale, è l’altro da sé animale presente o evocato in questi due scatti in bianco e nero: quello che indagarono sia Derrida (L’animal que donc je suis, 2006) sia Deleuze (Logique de la sensation, 1981), ma che attraversa tutto il pensiero filosofico da Aristotele a Heidegger. Ballen in una sola frase rimanda alla macro-questione che già si posero i filosofi: cosa significa essere un essere umano? Cosa ci distingue dall’animale? «Una sfida importante nella mia carriera – confida il fotografo newyokese – è stata quella di individuare l’animale nell’essere umano e l’essere umano nell’animale».
Se si scorre lo sguardo sui suoi enigmatici spazi popolati di personaggi bianchi, derelitti, spesso svestiti e attorniati da animali, è come vedere tradotta per immagini la pluralità dei mondi-ambiente (Umwelten) di Jakob von Uexküll. Sembra proprio che Ballen abbia fatte proprio il pensiero del filosofo-biologo estone, per il quale ogni organismo – animale/uomo (e non) – nella sua piena individualità (universo soggettivo) dà un proprio significato e forma all’ambiente nel quale interagisce attraverso la mente (Mind) che interpreta e ordina. Anche le immagini hanno una natura mentale, provengono dall’«immaginario più profondo. Un luogo che è difficile da raggiungere»: Ballen ci confida di aver «impiegato molto tempo non solo per arrivarci, ma anche per definirlo visivamente». Per comprendere l’entità di questo «luogo» non è necessario cogliere analogie, come pure è stato fatto, né con le arti figurative né con la fotografia (Bellmer, Goldblatt, Arbus). Piuttosto, lo abbiamo visto, sono altri i nessi utili a spiegare la sua ricerca, la quale, come nella geologia, va letta per strati (emozionali) successivi. Dai primi anni novanta a oggi l’indagine fotografica di Ballen ha avuto una lenta ma chiara evoluzione. È «aumentata per complessità» con scatti dai «significati opposti»: «qualcosa è umoristico ma anche scoraggiante» scrive nella postfazione al catalogo della mostra Ballenesque, Roger Ballen: A Retrospective (Thames and Hudson, 2017, pp. 336, €85,00). Ad esempio, nel ciclo il Teatro delle Apparizioni (2016), specie di moderno Memento mori, rappresenta un campionario di fantasmi nascenti da «regni psicologici» (Colin Rhodes), dove la fotografia perde qualsiasi riferimento con l’oggettività del reale per illustrare ectoplasmi che vagabondano fluidi nell’universo sotto forma di segni grafici aspri e incolti. Ballen porta all’estremo la sua riflessione sulla psiche, ovvero come la fotografia può «sfondare strati di repressione mentale e consentire alle diverse parti della mente delle persone di comunicare tra loro».
Un progetto ambizioso, ma riguardante in primo luogo lo stesso fotografo: le sue paure e ossessioni. Prima di riflettersi nei «disegni di spiriti», tra il 2000 e il 2014, prova a rappresentarle nelle serie Shadow Chamber, Boarding House e Asylum of the Birds: in questi lavori il suo sguardo per la prima volta si sposta «drammaticamente» dal mondo fisico a uno mentale, «dall’esterno verso l’interno», dove accosta corpi, object trouvé e disegni murali in mondi-ambiente perturbanti. Come nei racconti di Hoffmann e Allan Poe, il perturbante (Unheimlich) che Ballen immortala nei suoi scatti alberga nella dimora borghese, dove transita, come scrisse Ernst Bloch, mentre siamo seduti a leggere un giallo «in una poltrona comoda, sotto una piantana accesa, protetti e pacificamente immersi in cose pericolose e futili», ma qui siamo tornati all’inizio della mostra.

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