Gli impianti industriali ormai dismessi da decenni stanno sempre lì. Sembrano quasi scheletri di creature preistoriche che giganteggiano nel silenzio del tempo, testimonianza di un altro mondo, di un’era lontana. Stanno lì, in un’ampia area a poca distanza dal mare, a testimonianza di una passata civiltà, cominciata all’alba del XX secolo, nel 1906, per la precisione, anno in cui venne intrapresa la costruzione del centro siderurgico.

Lo stabilimento, uno dei più grandi d’Europa, sorse per sfruttare i benefici della legge speciale per Napoli del 1904 e sarebbe entrato in funzione, a tutti gli effetti, sei anni dopo, dando lavoro a circa 1.200 operai su una superficie iniziale di 120 ettari che sarebbe poi diventata di 2 chilometri quadrati. Così iniziò la storia di quella che avremmo conosciuto come Ilva-Italsider di Bagnoli; un complesso industriale che alla vigilia della Prima guerra mondiale avrebbe visto raddoppiare il numero degli operai, arrivati all’epoca a 2.500 unità, e aumentati ulteriormente nel corso del conflitto per necessità legate alla «mobilitazione industriale». In quella circostanza l’Ilva fu tra le prime aziende a ottenere il requisito dell’ausiliarietà, con il quale poté sistematizzare l’attività produttiva in funzione delle esigenze belliche del Paese.

In quegli anni cominciava il percorso che avrebbe portato lo stabilimento a contribuire, in modo rilevante, alla storia industriale d’Italia che aveva visto sorgere impianti prevalentemente nelle regioni del Nord, imprimendo alle medesime un modello di sviluppo diverso da quello di un Meridione la cui immagine è rimasta legata a una cultura prevalentemente rurale. Un’immagine che non tiene conto di importanti esperienze industriali come quella raccontata in queste righe. Qui non si parla di cattedrali nel deserto, di mostri capaci solo di deturpare il paesaggio senza dar vita ad alcun rapporto con le comunità locali. Per l’Ilva-Italsider è stato diverso, e se anche oggi quei giganti d’acciaio sembrano muti e quasi senza età, raccontano una lunga storia di civiltà del lavoro e di umanità. Le prime suggestioni, i primi bisbigli riguardanti quell’epoca giungono alla coscienza quando ci si ferma a osservare quei titani e ad ascoltare i messaggi portati dal vento che passa attraverso tralicci, lamiere e cavi d’acciaio. È il vento del tempo, della Storia.

Il nome Bagnoli è rimasto legato alla lunga vicenda dell’Ilva-Italsider, ma è prima di tutto quello del quartiere che accolse lo stabilimento. Si tratta di un’area di quasi 8 chilometri quadrati e di oltre 23.000 abitanti che si trova nel quadrante occidentale di Napoli e che, insieme a Fuorigrotta, dà vita alla decima municipalità del capoluogo campano. Ci troviamo in zona flegrea, in un territorio di natura vulcanica, turbolento e irascibile; lì sì che si avvertono con intensità le scosse sismiche, come quelle dello scorso maggio, che hanno portato in strada, nottetempo, numerose persone. Una terra inquieta che alle passioni della gente unisce l’irruenza del sottosuolo. Tutto sembra, per questo, eterno e precario allo stesso tempo; tutto soave e insieme raccapricciante. Dal pontile di Bagnoli, una passeggiata lunga quasi un chilometro, si offre l’immagine delle colline che circondano il paesaggio, quella inquietante degli impianti dismessi, la soavità dell’isola di Nisida con il carcere minorile a far da contraltare, e la poesia di Pozzuoli. Paradiso e inferno in un colpo d’occhio che si aprono a un mare sconfinato su cui si perde lo sguardo. Si può sognare, certo, ma la realtà chiama e impone di considerare i problemi di un territorio che è cambiato dall’ultima colata, quella del 20 ottobre 1990, dopo la quale venne spenta «l’area a caldo» del centro siderurgico.

Prima di allora, quanta storia, quante vicende: nel secondo dopoguerra gli impianti di Bagnoli ottennero una centralità produttiva rinnovata nello sforzo comune per la ricostruzione morale e materiale di un paese ferito da vent’anni di fascismo e messo in ginocchio da una guerra disastrosa. Questa sua valenza portò lo stabilimento a sviluppare un’importante presenza sindacale che negli anni Cinquanta avrebbe acquisito il carattere di una realtà radicata e profonda facente capo alla CGIL con oltre il 70% delle maestranze iscritto e attivo nella difesa dei diritti del lavoro. Nel 1964 lo stabilimento cambiò nome in Italsider; quella di Bagnoli, insieme alle fabbriche di Taranto e Genova erano di proprietà di una società pubblica, la Finsider che era stata costituita nel 1961 e si basava su quattro centri siderurgici a ciclo integrale: l’Ilva di Piombino, Bagnoli, Cornigliano, Taranto, ed altri stabilimenti minori, con produzioni settoriali, situati prevalentemente nel settentrione.

Nei tardi anni Settanta i dipendenti del centro siderurgico divennero quasi 8.000, ai quali vennero aggiunti circa 1.000 altri lavoratori impiegati stabilmente in determinati processi produttivi e un numero imprecisato di prestatori d’opera in forza presso ditte appaltatrici impegnato a titolo discontinuo sul fronte della manutenzione straordinaria e della ristrutturazione impiantistica. Con il rottame di ferro l’Italsider produceva acciaio pregevole sul piano qualitativo. All’interno degli impianti venivano fusi e riciclati, come acciaio, elettrodomestici, vecchi vagoni e scocche d’auto, dando vita a una pratica che anticipò quella che oggi noi conosciamo come economia circolare. Il decennio successivo sarebbe stato l’ultimo per questa cittadella industriale attiva e consapevole. Scrive Sergio Cararo, in Cuori d’acciaio – Il delitto dell’Italsider di Bagnoli, che i governi dei primi anni Ottanta spesero mille miliardi di lire, ossia quasi cinque miliardi di euro attuali, per ristrutturare gli impianti. Un articolo apparso su La Repubblica del 12 ottobre 1984 informava sullo stato del complesso campano: «Ristrutturato all’80 per cento, con una spesa che sfiora i mille miliardi, lo stabilimento siderurgico di Bagnoli è ora uno dei più moderni d’Europa. La lunga e drammatica vertenza che lo ha fermato per diciotto mesi ha determinato un taglio agli organici che sono scesi da 6.000 a 3.750 dipendenti (350 lavorano nelle ditte collegate). Ma ha conservato un’alta quota di produttività. Il milione di tonnellate di oggi può diventare, a partire dall’86, il doppio».

Di fatto, però, nel 1985 scattò la cassa integrazione per quasi 4.000 operai. L’accordo firmato in quel complesso di circostanze portò a uno scontro estremamente duro e teso fra operai e sindacati dell’Italsider di Bagnoli. Scrive ancora Sergio Cararo che «si trattava di uno dei settori operai più combattivi e competenti dell’intero ciclo produttivo che si siano mai visti in questo paese». La dirigenza dell’Italsider bagnolese decise di cominciare a ridurre il ritmo produttivo dello stabilimento per via delle quote acciaio imposte da quella che all’epoca si chiamava Comunità Economica Europea e accettate senza troppe obiezioni dai governi DC/PSI di allora. Sempre nel 1985 la Commissione europea ottenne che l’Italia tagliasse 5,8 milioni di tonnellate di acciaio prodotto in cambio di sovvenzioni economiche in altri ambiti. Iniziò così il percorso che avrebbe portato l’acciaieria a concludere il suo ciclo vitale. INDIA E CINA
Come già anticipato, l’altoforno di Bagnoli procedette all’ultima colata nell’ottobre del 1990 per poi essere venduto a una società indiana, mentre il moderno treno di laminazione fu ceduto, dopo cinque anni di attività, ad un’altra società, stavolta cinese, quali primi passi verso lo smantellamento dell’acciaieria e la sua definitiva liquidazione. Le industrie di quei due paesi smontarono tutto quello che poterono per riassemblarlo in patria e affermarsi, così, nel mercato mondiale dei prodotti siderurgici.

Contemporaneamente, per Bagnoli, si delineava sempre più chiaramente la prospettiva della deindustrializzazione e della soppressione di numerosi posti di lavoro. Non solo, si dava anche un colpo di spugna a una cultura del lavoro, una cultura operaia che a lungo era stata la cifra identitaria dell’abitato. La fabbrica, o meglio, ‘o cantiere, come veniva chiamato dai dipendenti dell’Ilva-Italsider e dalla gente del posto, non era solo un luogo di lavoro ma, come scritto da Italia Oggi lo scorso 18 aprile, «uno spazio di socializzazione e condivisione dove prendevano forma interventi concreti a favore della comunità: edilizia abitativa, asili nido, strutture di assistenza per persone con disabilità».

Era, insomma, un laboratorio sociale che aveva dato vita a una comunità coesa e produceva valori attraverso l’esercizio della solidarietà. L’attore Nando Paone, bagnolese di nascita e di formazione, ci racconta al Sala Molière, il teatro che dirige a Pozzuoli, che all’epoca d’’o cantiere c’era «familiarità tra studenti e operai» e precisa: «quando gli studenti scioperavano per ottenere maggiori diritti scolastici, gli operai li accompagnavano nei cortei e viceversa». Cortei nei quali, come racconta l’artista, lo slogan principe era «Studenti e operai uniti nella lotta». Si era quindi determinata una convergenza di obiettivi che ora è anche difficile solo immaginare; tutto questo in un luogo che, come precisa l’attore «era diventato un quartiere popolare nel senso più alto del termine», e la fabbrica e la cultura operaia avevano assunto la funzione di «collante sociale, produttore di valori umani».

A Bagnoli incontriamo anche Aurelia Del Vecchio, ex impiegata dello stabilimento siderurgico e autrice del libro Un luogo preciso, esistito per davvero. L’Italsider di Bagnoli (Polidoro 2014), con prefazione dello storico Francesco Soverina che ha dedicato degli studi all’argomento. La incontriamo col marito Lino; insieme, negli anni dell’Ilva-Italsider, sono stati attivi politicamente nella difesa dei diritti degli operai. Oggi continuano ad esserlo per la riqualificazione dell’area prima occupata dagli impianti. Dal suo libro si comprende bene che la chiusura della fabbrica fu per Napoli non solo il crollo della speranza di un avvenire produttivo per il territorio in questione ma anche la fine di una comunità, di un legame sociale; perché ‘o cantiere era un presidio democratico che aveva un’importante influenza politica e culturale su tutta l’area metropolitana. La ricostruzione degli eventi, ad opera di Aurelia, parte dall’accordo firmato dal sindacato nazionale e dall’azienda nel 1984 per la ristrutturazione dello stabilimento che presto, agli operai bagnolesi in lotta, sembrò trasformare la fabbrica in un «agnello sacrificale della siderurgia nazionale».

Il referendum che ne seguì successivamente, sempre nel 1984, fu per l’autrice dell’opera «un vulnus mai sanato», un’offesa alla democrazia, alla civiltà del lavoro. Insomma, l’epoca della partecipazione sociale stava finendo, le lotte portate avanti per la democrazia in fabbrica un ricordo; quella dello stabilimento di Bagnoli una storia di abbandoni anche da parte della sinistra. ‘O cantiere chiudeva nell’indifferenza e nel silenzio. Chiudeva quella che i suoi ex operai raccontano come una fabbrica d’avanguardia che suggeriva un’idea rinnovata del Mezzogiorno, una visione basata su una diversa qualità dello sviluppo produttivo e della civiltà urbana. Aurelia racconta che al fermento sociale degli anni dell’acciaieria si sostituì il deserto con conseguente crescita di un controllo sempre maggiore dei territori da parte della camorra. Di fatto non ebbe luogo la reindustrializzazione promessa, la nascita di un tessuto produttivo fatto di piccole e medie aziende ecologicamente sostenibili. Alla fine prevalsero scelte incapaci di rilanciare l’economia del posto.
Così, Aurelia e Lino si impegnano, insieme ad altri, per la conservazione della memoria operaia e per la riqualificazione dell’area in questione con il recupero di strutture da destinare ad attività culturali che si muovano insieme all’«Istituto Campano per la Storia della Resistenza e dell’Età Contemporanea Vera Lombardi», che ospita un archivio di testimonianze legate alla fabbrica, e al Circolo Ilva, sede anche di un museo di civiltà operaia, al fine di custodire un patrimonio che è parte della storia napoletana e nazionale.

La scrittrice Rosi Selo, vincitrice di diversi premi letterari, ricorda che «sono state numerose le morti in fabbrica, legate non solo all’amianto, ma anche agli incidenti sul lavoro che hanno segnato un’epoca lavorativa importante. Malgrado tutto ciò, la fabbrica è ancora adesso profondamente amata dai suoi ex dipendenti, poiché ha dato loro la dignità di un salario e ha creato un’aristocrazia operaia svanita con la chiusura dello stabilimento». Il suo Vincenzina ora lo sa (Rizzoli, 2023), è un romanzo di formazione e trasformazione che ci porta al cantiere: parla di una giovane donna, appunto Vincenzina, costretta a lasciare l’università per entrare in fabbrica dopo la morte di suo padre, operaio dell’Italsider di Bagnoli, e ha tra i suoi personaggi anche Aurelia. La protagonista, racconta la Selo, «si scontra con gli incidenti sul lavoro, gli accordi sottobanco, gli aborti illegali, la sottomissione e la violenza. Siamo nel cuore degli anni ’70, un periodo legato al femminismo, alle Brigate Rosse, al massacro del Circeo, a leggi importanti come la 194 e la 898 sul divorzio.» Il romanzo termina con la chiusura della fabbrica e la fine di un’era che è stata vissuta come una lacerazione del tessuto sociale e storico di Napoli. Vincenzina versa malinconicamente l’ultimo caffè ai suoi compagni e sa che è e sarà sempre una di loro.

Si parla di riqualificazione e nuova destinazione produttiva dell’area, se ne parla da tempo e da tempo Bagnoli è al centro di lunghe polemiche e visioni contrastanti. Tra i temi vi sono quelli della bonifica e della rimozione totale o parziale della colmata a mare che hanno contribuito alla complessità di questa vicenda e dei suoi sviluppi più recenti. Da un’ANSA del 30 aprile scorso si apprende che con un finanziamento di 1.2 miliardi di euro per la rigenerazione urbana di Bagnoli contenuto nel dl coesione approvato dal Consiglio dei ministri si copriranno i costi previsti per il completamento della bonifica a terra e a mare e per la realizzazione delle infrastrutture. Si vedrà. Cosa diventerà Bagnoli è tuttora una scommessa, sappiamo però cos’è stata negli anni d’’o cantiere, e in riferimento a esso si parla di ‘illuminismo dei caschi gialli’; sarebbe bello ricordarli tutti per nome ma sono tanti. Dalla bocca di Aurelia e di Lino escono i nomi di Nino Di Francia, Beniamino Abate, Amedeo Scherillo, Renato Tomei, Salvatore D’Onofrio, Rosario Quagliolo. Sono alcuni membri di quell’aristocrazia operaia oggi così lontana.
Ce li facciamo bastare per tenerli a mente tutti quanti.