Quale città in Europa detiene il primato in ambito artistico? La questione, sebbene appaia oggi anacronistica, è stata per secoli al centro di un vivace dibattito culturale, sfociato spesso in aperte manifestazioni di campanilismo. Se, per assurdo, potessimo tornare indietro nel tempo di quattro secoli e rivolgere questa domanda a Giovanni Baglione, non avremmo dubbi circa la sua risposta: Roma. Nato, cresciuto e affermatosi nella capitale pontificia, il pittore vede nell’Urbe il «compendio delle maraviglie del tutto», l’unica città al mondo in grado di condensare mirabilmente le opere d’arte dei più grandi maestri del passato e del presente.

Intorno a questa convinzione Baglione struttura tutta la sua attività, anche di scrittore. Nel 1639 dà alle stampe una guida, Le nove chiese di Roma, e tre anni più tardi, le Vite. Ci troviamo di fronte a due opere che sfuggono a ogni tentativo di semplificazione. Le nove chiese sembrano inserirsi pacificamente nella lunga tradizione periegetica di ambito devozionale, ma in realtà ne stravolgono l’impianto. L’ampio spazio che solitamente era riservato alle tanto venerate reliquie è quasi azzerato; al contrario, il lettore è invitato a concentrare la propria attenzione su dipinti, statue e bassorilievi, che divengono gli oggetti più ammirabili presenti in questi templi della cristianità. Anche per quel che riguarda le Vite, in teoria Baglione si autoproclama diretto erede di Vasari e della sua impresa storiografica, ma nei fatti si allontana dal modello del celebre biografo e finisce per concepire un testo ‘ibrido’, sempre in bilico tra «descrizione periegetica e trattazione monografica», come ben sintetizza Patrizia Tosini nell’edizione ora edita da Officina Libraria.

È in questa eterogenea produzione, in cui i generi letterari assumono spesso confini labili e indefiniti, che Roma si erge al ruolo di assoluta protagonista. Nelle Vite, in particolare, la città diviene l’unità di misura di ogni cosa: se le vite dei pontefici scandiscono il tempo della narrazione, le chiese dell’Urbe definiscono lo spazio in cui pittori, scultori e architetti sono chiamati a muoversi e operare. Niente e nessuno esiste al di fuori delle mura aureliane.

Così, la singolare presenza di una biografia dedicata al veneto Francesco Bassano, mai giunto nella capitale pontificia, è giustificata unicamente dalle due tele che l’artista esegue, rispettivamente, per San Luigi dei Francesi e per il Gesù.

Baglione osserva e cataloga tutto in modo sistematico, a tratti ossessivo. E proprio in questa maniacale ricognizione del patrimonio artistico Roberto Longhi ha intravisto i prodromi non di una raccolta biografica, bensì di una grande guida di Roma, primo originale intento dell’autore. In effetti, per Baglione le pitture e le sculture poste sugli altari e sulle pareti delle chiese sono la prova più tangibile della supremazia culturale dell’Urbe su ogni altra città d’Italia e d’Europa, ancor più delle vite degli artisti. Forse in quest’ottica avrebbe trovato la sua ragion d’essere quell’iniziale scelta: descrivere le singole opere d’arte in un coerente percorso topografico significava accompagnare personalmente il lettore alla scoperta di quelle pitture, sculture e architetture, attestando in modo inequivocabile il primato di Roma, al di là di ogni speculazione teorica. Le nove chiese, dunque, se lette in questa prospettiva, ci appaiono come «un frammento avanti lettera» (per usare le parole di Longhi), una piccola anteprima di quella grande guida concepita solo nella mente dell’autore.

Per certi versi le iniziative editoriali di Baglione si pongono sulla scia di quelle intraprese dal suo acerrimo nemico e collega Gaspare Celio, che già dal primo decennio del Seicento aveva iniziato a lavorare alle sue Vite – rimaste manoscritte e solo recentemente riportate alla luce da Riccardo Gandolfi (ed. Olschki) – e poi a una descrizione della città, la Memoria delli nomi, terminata per la gran parte nel 1620 ma pubblicata soltanto nel 1638. Ancora una volta una raccolta biografica e una guida, dunque. Se però Baglione fa della ricognizione sistematica il suo marchio di fabbrica, Celio compie invece una precisa selezione di opere e artisti, tacendo tutto ciò che non gli è congeniale, a partire proprio dall’odiato collega, il cui nome viene sistematicamente omesso. Così, quando Baglione pubblica Le nove chiese, ci tiene a precisare che la sua guida nasce «per cagione di molti errori, che da malintendenti fin’hora sono stati scritti»: un riferimento assai poco velato alla Memoria che Celio aveva pubblicato solo un anno prima.

Eppure, anche in un contesto simile, in cui accuse, omissioni e maldicenze sono all’ordine del giorno, la centralità di Roma rimane una verità incontrovertibile, sulla quale anche due rivali agguerriti come Baglione e Celio concordano appieno. Una convinzione che risulta avvalorata dalle condizioni in cui versano le altre grandi città d’Italia, a partire da Firenze e Venezia, ripiegate su loro stesse, in contemplazione del loro glorioso passato quattro-cinquecentesco.

La capitale pontificia è invece il modello a cui per tutto il Seicento i sovrani d’Europa guardano con ammirazione, compreso Luigi XIV, che sogna Parigi, emblema del suo potere assoluto, come una novella Roma. Proprio da questa consapevolezza nascono le Vite di Baglione, forse la testimonianza più eloquente del fervore artistico dell’Urbe seicentesca, «Reggia dell’Universo».