Il vecchio Schlosser non fa molte cerimonie, Le vite de’ pittori, scultori et architetti di Giovanni Baglione, pubblicato per la prima volta nel 1642, «è unicamente un lavoro annalistico costretto nella cornice di una delle solite guide locali»; si pone sulla scia delle Vite di Vasari trascurandone però il sistema storico, e in tutto risuona un’avversione viscerale al naturalismo caravaggesco.

Non è del tutto vero, e oggi riusciamo a comprenderlo meglio: nella cronologia affrontata da Baglione – tra i pontificati di Gregorio XIII Boncompagni e Urbano VIII Barberini, quindi 1572-1642 – Roma, che è il centro delle sue indagini, non è un contesto locale, ma universale. Lo è anche perché sul banco di prova della Città eterna in quel momento si scontrano le correnti più avanzate dell’arte contemporanea. Con le formule interpretative che ci sono più congeniali, si può dire che il testo ritrae un momento in cui gli ultimi fuochi del Manierismo convivono con le prime scosse del Naturalismo, mentre maturano Classicismo e Barocco.

ella realtà di Baglione, che è fatta d’incontri e memorie recenti, questi insiemi critici hanno confini molto più porosi. Il suo sguardo è quello della vita vissuta, alimentata da passioni e acredini. La parzialità è inevitabile, ma non tanto da rendere il libro, come appuntava l’ex amico Bellori, «buono a nulla». Anzi, nella stesura asciutta, nell’«obiettività severa, libera da ogni retorica» (sono ancora parole di Schlosser), che evita quanto può i dati biografici a fronte di un’elencazione minuziosa delle opere sul suolo dell’Urbe, Baglione si mette a servizio, fornendo ai posteri una ricchissima miniera d’informazioni.

È per questi motivi che la nuova edizione delle Vite di Baglione, curata da Barbara Agosti e Patrizia Tosini ed edita da Officina Libraria (due volumi, I pp. 924, II pp. 342, 1 ill. in b/n), è importante. È un’impresa collettiva che ha coinvolto moltissimi studiosi; il commento non straborda, resta aderente al corpo del testo, e la lettura, misurata sugli aggiornamenti recenti, finisce per scuotere gli schematismi storiografici novecenteschi (nella categorizzazione delle carriere, nella divisione delle tecniche artistiche tra arti maggiori e minori, nella periodizzazione, in alcuni giudizi critici…).
Come aveva già notato Roberto Longhi, la partizione delle più di duecento biografie nei limiti di cinque giornate, corrispondenti ad altrettanti pontificati, inscena dei ritratti di gruppo. Anche mentre scrive, Baglione resta infatti un pittore e sia nei cantieri degli esordi che nell’Accademia di San Luca dove militava pesavano i sistemi, la regìa artistica, i rapporti tra le maestranze in insiemi di varietà differenziabili.

Lo stesso vale nell’interesse per le tecniche: Baglione specifica sempre se un’opera è dipinta a olio, è un affresco, eccetera, aggiungendo dettagli dove ritiene. Come: «lapis nero in carta turchina con molta grazia tocchi di gesso»; «a olio sopra le mura incollate»; «a olio su le lavagne»… Le qualità elencate nelle biografie formano inoltre la carta d’identità del buon artista, in specie del buon pittore: «ritrarre al naturale con grande diligenza», «con buona prattica», «con grandissima accuratezza», molta «invenzione», «speditezza» e via di seguito. Le virtù più ribadite sono quindi legate alla prassi, all’imitazione dei propri (buoni) maestri e agli scambi tra artisti, il tutto accompagnato al talento, ma anche al saper conversare e a un’educazione dignitosa.

Estrapolate, sono regole accademiche, laddove l’accademia è approdo necessario al riscatto sociale e culturale della professione artistica e il luogo dove si conserva memoria dei professori delle arti. Le valutazioni negative sono invece da attribuire all’allontanamento da queste buone pratiche: Carlo Saraceni «saria divenuto miglior dipintore» se avesse seguito i consigli del proprio maestro Camillo Mariani, invece di «voler imitare la maniera del Caravaggio»; Ventura Salimbeni avrebbe migliorato la sua «buona maniera» se avesse «seguitato gli studii che richiedeansi a divenir perfetto», al posto di stare «tutto dì sugli amori»; Bartolomeo Manfredi se «avesse accompagnato il buon colorito con il buon disegno, averia operato mirabili cose».

Dietro molte di queste bocciature ci sono anche inimicizie, litigi, questioni personali non esplicitate e un anticaravaggismo di base, ma è sempre uno schema valoriale a giustificarle. Ci sono poi casi in cui non mancano né i buoni maestri né lo studio, e l’insuccesso si spiega per la mancanza di talento, per il brutto carattere, i difetti di salute, i vizi, la morte in età giovanile: Iacopo Rocchetti, benché allievo del grande Daniele da Volterra, «ne’ suoi lavori era freddo, e la natura a nobili pensieri non lo sollevava»; Francesco Stati «aveva buon talento; ma con diversità, e varietà di genio, e di capriccio diedesi al bazzarro de’ quadri, disegni, statue, medaglie, e gioie» e «diedesi ancora al gioco» e a «disordini di mille sorti» con cui perdette la vita; Francesco Nappi, milanese a Roma, dopo aver studiato attentamente le migliori opere della città «mise egli il suo cervello a partito, sì che posesi a sbaraglio».

Una lunga sosta a Roma è imprescindibile per tutti. Solo nell’Urbe le caratteristiche delle diverse scuole si mescolano: un veneziano come Palma il Giovane si sposta perché «nel disegno perfettamente studiasse»; il giovane lombardo Morazzone viene per «studiare nelle belle opere di Roma, sì antiche, che moderne; e facendo anche frutto nelle accademie che per Roma si fanno». Perciò allontanarsi dalla città comporta dei rischi. Barocci, forzato dalla malattia – o da una «malia» –, deve tornare nella sua Urbino declinante. È quindi sminuito in un’emarginazione che è quasi un tradimento al naturale sviluppo dell’arte.

L’interpretazione di Baglione ha pesato moltissimo negli studi. In quest’ultimo caso, per esempio: l’idea di Barocci come un gigante solitario in una città congelata nel passato ha avuto molta fortuna critica, ma l’isolamento non è stato assoluto come fa intendere la sua biografia. In quel ritratto, tra gli altri, emerge bene anche l’adesione di Baglione all’estetica controriformista: la maniera «sfumata, dolce, e vaga», che dilettava gli occhi e «componeva gli animi; et i cuori a divozione riduceva», è del tutto alternativa allo stile di Caravaggio, che non ha avuto «giudicio di scegliere il buono, e lasciare il cattivo», che ha «rovinata la pittura» galvanizzando frotte di giovani imitatori con quadri che hanno provocato «estremo schiamazzo» anziché rispetto e devozione.

Si potrebbe continuare a lungo pescando da questa raccolta di notizie vagliate nei cappelli introduttivi e nelle note di commento che rivestono ogni biografia, consultabili agevolmente utilizzando gli indici finali: l’attenzione costante ai disegni di Michelangelo, i contrasti tra categorie (Carlo Maderno merita lode «benché egli fusse poco amico della pittura, e troppo parziale degli stucchi, né quali si era allevato»), la concezione del restauro, la produzione di falsi, le peculiarità tecniche…

Ma al di là dell’uso nel campo stretto degli storici dell’arte, un libro come questo suggerisce qualcosa anche per il presente. La Roma di Baglione è internazionale, assorbe e potenzia le idee, persino quelle più bizzarre. È una comunità culturale aperta, dove gli artisti romani sono minoranza assoluta; esistono le correnti, i patriottismi e le contrapposizioni, ma tutto accade perché si gioca sullo stesso campo. Non ci sono pregiudizi sugli «accrescimenti», che pure in pochi decenni hanno stravolto il modo di fare e vedere le cose; tutti sono benvenuti a Roma perché la città può insegnare, e imparando si può aggiungere qualcosa di buono, nuovo e ingegnoso al luogo storicamente più stratificato al mondo, per soffiare spirito e virtù nella tromba della fama, «a dispetto dell’invidia, e contra l’ira del tempo».