La redazione consiglia:
Babel Med, l’itinerario del suono globaleMarsiglia. Probabilmente non è un caso che una rassegna come il Babel Med riapra i battenti, dopo cinque anni di stop per molti versi traumatici (l’annullamento dei fondi della Région Sud e poi gli squassi pandemici), proprio nei giorni in cui la Francia è in fibrillazione per le proteste e gli scioperi contro la legge di revisione delle pensioni voluta da Macron. O meglio, è sicuramente un caso, perché la nuova gerenza del festival non poteva immaginare che cosa si sarebbe scatenato in questa primavera transalpina, ma è una casualità molto significativa, perché il Babel Med, che si svolge da sempre a Marsiglia, non è solo un festival, non è soltanto un ritrovo per gli addetti ai lavori del settore legato alla cosiddetta world music, è anche il volano del rilancio economico di una filiera importante come quella della cultura e della musica in particolare.

IN QUESTA CITTÀ abituata da sempre ad «ascoltare il mondo», i fili sociali e quelli musicali, si intrecciano senza tregua. A questo proposito la militanza e le prese di posizione dei musicisti autoctoni e quelle degli ospiti arrivati per il Babel Med si sono palesate solo episodicamente sui palchi della rassegna, ma per un’expo dedicata alla «diversité musicale» era inevitabile, quasi sottinteso, solidarizzare con certe istanze.

NEL SET POTENTE della Rhabdomantic Orchestra di Manuel Volpe, una delle tre proposte italiane del cast, c’è stato un brano esplicitamente dedicato ai moti di questi giorni e tutto il set dei De La Crau, l’ultima, mesmerica, proposta del marsigliese Sam Karpienia è parsa una sorta di colonna sonora implacabile dello spirito di questi tempi «cupi». Armato della sua mandola elettrificata Karpienia (già leader di Dupain e Forabandit), si è fatto accompagnare da un contrabbassista e da un batterista e tamburellista, e ha messo in moto una sciamanica epopea in occitano. Folk che guarda al rock e alla psichedelia e lo fa con una credibilità rara. Anche in una delle altre due proposte made in Italy di questa tre giorni di showcases – quella della salentina Maria Mazzotta – c’era il tentativo (perché si tratta di una proposta per certi versi ancora acerba) di elettrificare la matrice popolare. Come a trasformare in ghigno il volto sereno delle melodie folk, come a cercare la cattiveria di un suono distorto da affiancare a una voce acre. Deve essere un’inclinazione condivisa a molte latitudini perché è stata un’opzione scelta da molti dei gruppi che si sono esibiti nei Docks di Marsiglia (il paniere dei concerti serali): alcuni di matrice orientale (Al-Qasar, MAyssa Jallad, Meral Polat Trio, Sarāb), altri etiopica (Kutu), giapponese (Maïa Barouh), occitana (S.T.O.R.M.).Il set potente della Rhabdomantic Orchestra, i coloratissimi e post nucleari Fulu Miziki Kolektiv

PER NON PARLARE poi dei coloratissimi e post nucleari Fulu Miziki Kolektiv, che coi loro strumenti riciclati e autocostruiti dopo aver saccheggiato le discariche di Kinshasa, hanno messo in scena un set davvero apocalittico, frenetico e roboante. Tutti a mostrare musicalmente i muscoli insomma, e spesso a farlo in maniera davvero convincente. Vogliamo però anche raccontarvi di alcune piccole bolle di concentrazione e intimità. Innanzitutto il set del terzo ospite italiano, il calabrese Davide Ambrogio che con superba abilità e molto coraggio ha inscenato un concerto solitario disimpegnandosi tra canto, looping, lira calabra, chitarra battente, tastiere vintage. Filo rosso del suo excursus: la religiosità del meridione e le sue mille declinazioni. Ma anche la cilena-cubana Ana Carla Maza ha convinto con il solo aiuto del suo violoncello e della sua voce. Così come il marocchino Walid Ben Selim, le cui declamazioni poetiche avevano l’unico contraltare dell’arpa di Marie Margherite Cano. Meno in bolla, una volta tanto, un fuoriclasse del nuovo brasile come Lucas Santtana e davvero disastrosa, perché fracassona e banale, la fusion armena dei JINJ.

C’È INFINE da fare il punto sulla sempre numerosa quota di proposte «creole», proposte che non possono essere ignorate in un consesso imponente come il Babel Med. La Francia dicevamo non si può ancora esimere, perché se è vero che oggi siamo «dopo» il postcoloniale, siamo anche in quella globalizzazione in cui però i motivi profondi del colonialismo, insieme ai conflitti postcoloniali e alla violenza mondializzata che trasforma le minoranze in esodi, hanno aperto nuovi scenari. E se il colonialismo è diventato post-colonialismo, sia pur in mezzo a molte invasioni tutt’ora perpetuate (magari sotto la forma di ingerenza commerciale), questa expo marsigliese prova a far luce anche sui postumi di una lunga serie di miracoli sonori che continuano a germinare in mezzo a situazioni logistiche non sempre all’altezza, a difficoltà di ottenere i visti per esportare i propri concerti, a turbolenze sociali che mettono in forse la programmazione di un futuro del music business. Post-coloniale per la Francia vuol dire NordAfrica (un vero e proprio colpo al cuore l’omaggio alla regina del raï algerino Cheikka Remiti da parte de Les Héritières), Africa subequatoriale, Oceania, ma vuol dire anche Oceano Indiano e Caraibi. Da La Reunion e dai suoi codici creoli arrivavano i sussulti di due gruppi convincenti come An’Pagay e Soval Chaviré, mentre dai caraibi abbiamo apprezzato le proposte di Ariel Tintar e Dowdelin e soprattutto quella dell’haitiana Moonlight Benjamin, una vera sacerdotessa indemoniata, con tempi teatrali impeccabili e una voce ruvida e squassata come la terra dell’isola da cui proviene.