Lo scultore giapponese Kengiro Azuma (Yamagata 1926 – Milano 2016)

La storia di Kengiro Azuma (una sua antologica è aperta, fino al 26 ottobre, nella Pinacoteca Civica di Como) sembra quella di Bodhidharma (440-528 d.C.), considerato il fondatore dello zen. Basta sostituire alla dottrina buddista la scultura, cambiare il nome del maestro (Marino Marini a Pranatara) che rende possibile la scoperta di un metodo per percorrere il cammino, il faticoso viaggio verso l’Italia a quello verso la Cina, il modo come veniva praticato l’insegnamento dell’arte nelle Università e il buddismo, l’impossibilità di comunicare con un imperatore privo dell’aureola di Dio, per ritirarsi non scoraggiati in una grotta, come farà Bodhidharma, ma pieni di energia nell’antro di via Baldinucci, per una totale abnegazione verso il mondo delle forme che annulli quella distanza e le differenze culturali che Pierre Loti descrisse nei suoi libri ambientati in Giappone.
All’Accademia di Brera avverrà quel silenzioso scambio tra maestro e discepolo il cui primo atto fu la trasmissione diretta dell’illuminazione: la mente lucidamente concentrata sull’attività plastica rinvigorita dalla quotidiana pratica del disegno e dalla sperimentazione del contrasto fra tradizione e modernismo.
Tuttavia, la qualità vigile e consapevole della mente, il pensiero flessibile e aperto, è presente fin dal corso di scultura all’Università Nazionale d’Arte di Tokyo dove Azuma apprende di Despiau e di Bourdelle. Lo attrae, del primo, la calma e il riserbo dell’espressione, mentre dello scultore di Montauban ama l’origine di un’arte profondamente radicata nella lontana e ancestrale eredità familiare, in quel ceppo di artigiani sapienti che erano anche i suoi avi.
Ognuno di questi artisti ruota attorno a Rodin, sente il conflitto tra spirito e materia, obbliga il moto delle forme a iscriversi in limiti precostituiti, a far riaffiorare la propria personalità, a renderla segno di uno stile concentrato in vista dell’azione.
Deciso, non inquieto, lontano da ogni drammaticità di volumi, Azuma fa lo stesso percorso ma allarga il cerchio dei suoi interessi e, improvvisamente curioso dell’arte arcaica e primitiva, volge lo sguardo a Moore, alla sua capacità di articolare i vuoti mediante l’interpenetrarsi dei piani.
Interessato a capire le linee di forza sulle quali si regge la figura, è la prima volta che affronta il vuoto e la vitalità dell’oggetto rappresentato. L’apertura della massa plastica è l’indizio di un equilibrio classico che prende coscienza del vigore del nudo di donna, più o meno realistico, e ne sottolinea in molteplici varianti il vigore espressivo, ricorrendo alle piccole statuette della Costa d’Avorio lette attraverso Modigliani, soffermandosi davanti alla statuaria lignea giapponese degli inizi del secolo IX detto periodo di Heian, ritornando periodicamente all’indistruttibile fermezza delle teste degli amici in cui raccogliere le aspirazioni della sua generazione.
Queste effigi si ripetono fino a tutto il 1958, tra ricordi di colline, di ciottoli, di alberi che, mentre aiutano a scoprire l’ordine ritmico, tradiscono una sotterranea nostalgia della famiglia rimasta a Yamagata. Ed è proprio citando Marino che si indirizza a una prima astrazione portata a ridurre il soggetto a un puro scheletro, di lì a poco intitolato semplicemente Scultura (1959) o Composizione (1960), a rinnegare la tradizione propugnata dai maestri francesi per trarre dal «suo» maestro italiano, che pure era stato allievo di Domenico Trentacoste, quelle feconde componenti di cultura che fertilizzeranno in modo singolarissimo la sua attività rinnovatrice.
Marino considerava «profondamente artistica soltanto quell’opera che pure attingendo alle scaturigini della natura, se ne astrae e le supera». Azuma, su queste parole e sulle asciutte cadenze che definiscono nello spazio diverse forme ridotte a una sola, iterata o focalizzata negli anni al massimo delle possibilità, elegge MU, il vuoto, come progetto di un’analisi, tutta moderna, dell’avanguardia europea in generale e di quella milanese in particolare, che ha in Lucio Fontana, Fausto Melotti e Umberto Milani alcuni punti di riferimento e in Karl Hartung, Hubert Dalwood, Zoltan Kemeny e Louise Nevelson il corrispettivo internazionale. Il miracolo di Marino si ripete con Azuma, che ne coglie l’estrema evoluzione mettendosi in ascolto di se stesso, calandosi nella profondità del Sutra del Cuore, lì dove dice: «La forma è vuoto e il vuoto è forma».
Il fluire della linea, ritmata da libere variazioni, assume un particolare peso meditativo, pari allo schema elementare di antica discendenza popolare, da vedere frontalmente o a luce radente, per quell’impercettibile suggerire, a distanza, lo spazio flessibile aperto all’eternità, in un continuo scambio tra bronzo e vuoto.
La scomposizione dei piani, di riflusso cubista, si integra proprio in queste soluzioni lineari che adottano frammenti di motivi architettonici talvolta fissi, altre volte mobili, messi insieme secondo un procedimento ripetibile e addizionabile per taglio e dimensioni, tra intimo possesso della tradizione giapponese e aspirazione alla sensibilità sintetica del tempo, l’una e l’altra strada maestra per un evidente inesauribile allineamento o intima intesa che è una vera e propria risoluzione stilistica, affrancata da ogni reminiscenza figurativa e interessata alla perfezione della fusione.
Il significato rappresentativo e quello simbolico, una volta contrapposti, si fanno complementari omologando il dinamismo alternato dei buchi, dei tagli, delle ferite, dei fantasmi che corrodono con increspature o improvvise folgorazioni la membrana specchiante dei bronzi, dotandola di una misteriosa presenza, quasi fossero stati sempre lì, sedimentate dal tempo inarrestabile.
La percezione di quest’inorganico primordiale che conserva un’eco umana della bellezza della natura, della larva che si insinua all’interno della scultura verticale carica di se stessa, agli antipodi della prima maniera, già alimentata dall’informale alla fine degli anni cinquanta e non rifiutata da Marino che nel 1960 ha modo di rivisitarla esplicitamente in pittura, trova Azuma pronto a sottrarsi alla semplice sensorialità per renderla processo cognitivo derivante dall’azione combinata di occhi, cervello e mente.
La «verità morale» del maestro è la «verità percettiva» dell’allievo che inizia il suo viaggio nello zen come consapevolezza e conoscenza delle cose. MU, il vuoto, il nulla come fonte del tutto, fa piazza pulita delle idee date per scontate e in una sostanza solida come il bronzo, carica di energia, esalta, nella pluralità, l’unità compatta della scultura resa specchio della mente che riflette la forma quasi fosse un mantra salmodiato.
Azuma punta direttamente all’essenza della realtà, che è l’origine stessa della forma, per far rigermogliare le cose in continuo mutamento. Rinascere, del 1974, un vecchio granito che segnava il limite di un’antica strada di Milano, ritrova nel bronzo le infinite possibilità riposte in ciò che sembrava destinato alla morte. L’orizzontale ritorna verticale, non è più una pietra inutile, il ciclo della vita continua e così la scultura che affronta l’ignoto con un potenziale di positività e un senso quasi inesplicabile della integrità irripetibile del mondo vegetale.
Quasi a prefigurare una scultura liberamente disposta nel paesaggio, in relazione con l’ambiente, una scultura nella scultura, severa di concezione e pura nel disegno, una matrice primaria e simbolica, densa e compatta, monumentale e minimalista, che punti al cuore dell’esistenza, ecco nel 1976 apparire, diretta filiazione dei tre coni di pietra dell’installazione Cielo terra e uomo realizzata nell’antica cava di pietra di S. Margarethen, MU 765 M, la goccia d’acqua che da uno schema mentale trae la perfetta saldezza tra intelletto e sensi, tra ragione e istinto.
Disposta tra le antiche architetture medioevali o tra le chiese barocche, tra gli orrdi delle gravine o nelle radure boscose della Valtellina, la goccia pone immediatamente una interrelazione tra la vera natura interiore e i fenomeni quotidiani esterni.
Il linguaggio della scultura porta verso il simbolo, quello della filosofia zen non fa riferimento a un oggetto ma a un veicolo di trasmissione di quell’illuminazione che va oltre il significato provvisorio o la riduzione fenomenologica e ottiene ogni volta una nuova consapevolezza.
Azuma ripropone, negli anni, in più versioni e dimensioni, nel bronzo che colma l’abisso tra cosciente e essere, la goccia, ne fa un monumento della vita (1991) che scorre da un luogo all’altro, né costante né immutabile, quasi una risorsa primaria di illuminazione: valori assoluti che si ripercuotono in ogni altra azione.
Ogni volta che ingrandisce lo spazio esterno, diminuisce il senso di esistenza volumetrica della goccia quale oggetto e cresce la proprietà magnetica dell’immagine variata sull’utilizzo dei vuoti resi parti di contrappeso ai volumi (MU 811, 1981), sulla combinazione delle linee oblique, verticali o sinuose. Scrive Azuma: «Qualche volta il pieno / carico di vuoto / qualche volta il pieno / carico di pieno / naviga verso il vuoto / dove arriverà / si troverà il tempo pieno», che è l’annuncio di YU, il pieno, in cui si muove la ricerca a partire dai primi anni ottanta.
L’immagine si incurva, si arrotonda, si frantuma, non viene intesa più solo come organismo, si indirizza con fermezza alle leggi fondamentali della plastica più rigorosa, alla chiarezza formale nella quale l’espressione deve essere assolutamente contenuta. Basta fare una comparazione tra l’accento drammatico di MU IMA II, del 2007, che ancora segna il cammino iniziato nel 1960, e la serena semplicità di YU 2, del 1985, per rendersi conto dell’ampiezza della rivoluzione spirituale maturata in Azuma, delle spoliazioni operate sulla scultura che precorre ogni schematizzazione espressiva mediante l’eliminazione di ogni dettaglio superfluo.
Sembra essere tornato, Azuma, ai fondamenti dello zen quando copre di specchi il giardino e vi posiziona a piramide una serie di tondini di ferro che, nell’interazione tra forma e non-forma, rimandano nello spazio, per definirli, un numero infinito di raggi di sole. È la luce che ripete il miracolo dell’Unità delle cose che germogliarono insieme nello stesso singolo istante.