Aziende piccole e senza aiuti pubblici, la produzione e le esportazioni di castagne si sono dimezzate
Tra mercato, storia e cultura Le aziende agricole con castagneto da frutto in Italia sono circa 15mila, per una superficie coltivata pari a 39 mila ettari (dati Istat, censimento generale dell’agricoltura). Nell’ultimo decennio le aziende […]
Tra mercato, storia e cultura Le aziende agricole con castagneto da frutto in Italia sono circa 15mila, per una superficie coltivata pari a 39 mila ettari (dati Istat, censimento generale dell’agricoltura). Nell’ultimo decennio le aziende […]
Le aziende agricole con castagneto da frutto in Italia sono circa 15mila, per una superficie coltivata pari a 39 mila ettari (dati Istat, censimento generale dell’agricoltura). Nell’ultimo decennio le aziende si sono dimezzate e la superficie si è ridotta di un terzo. Il nostro Paese attualmente produce circa 45 mila tonnellate l’anno di castagne e marroni (Coldiretti, ottobre 2023): poco più della metà della quantità registrata una quindicina di anni fa, così come si sono ridotte del 50% le esportazioni. Per compensare la mancata produzione importiamo circa 20 mila tonnellate l’anno, per un valore di 100 milioni di euro, principalmente da Portogallo, Spagna e Turchia. I maggiori coltivatori mondiali sono invece i paesi asiatici: Cina, Corea del Nord e del Sud, Vietnam, che a loro volta assommano una produzione di 10 volte superiore a quella europea.
IL CASTAGNO (CASTAGNEA SATIVA) È STATO introdotto sul nostro territorio dai Romani, che apprezzavano moltissimo di questa pianta sia il frutto sia il legno: tra i molteplici usi figurava quello, appreso dagli Etruschi, di farne pali per le vigne. Impiantarono castagneti sia nel bacino del Mediterraneo, sia in territori dal clima apparentemente meno adatto. La seconda grande fase di espansione è da attribuire invece all’iniziativa di Matilde di Canossa: convinta dell’importanza che le castagne rivestivano nell’alimentazione delle popolazioni rurali, ne moltiplicò la diffusione, ideando anche un criterio di disposizione degli alberi – il sesto matildico – per la loro migliore crescita e fruttificazione.
LA PRODUZIONE DI FARINA DI CASTAGNO salvò dalle carestie intere popolazioni e quando incontriamo una pianta – magari secolare- nei nostri boschi, significa che quel luogo era abitato. Il castagno è perciò oggi soprattutto la testimonianza di un bagaglio culturale: a maggior ragione i piccoli appezzamenti meritano l’attenzione della comunità, con i coltivatori che in varie zone d’Italia provano a difendere i presidi dall’abbandono e dal degrado, particolarmente accentuatosi con l’industrializzazione del secondo dopoguerra.
IL CASO TRENTINO IN QUESTO SENSO è emblematico: la regione è solo al quindicesimo posto nazionale per superficie coltivata (323 ettari), ma il numero di aziende è al settimo posto, con 550 imprese che si prendono cura di questo magnifico albero, nella varietà del marrone. Luigino Leonardi è presidente della cooperativa castanicoltori del Trentino Alto Adige «che include circa 60 soci su un territorio molto vasto. Gli appassionati operano spesso in piccoli comuni e farebbero fatica a mettersi in relazione se non fosse stata creata una rete».
Il castagno non è una pianta autoctona e fatica a riprodursi autonomamente nelle zone boschive. Il marrone inoltre si differenzia dal castagno per frutti di dimensioni maggiori, buonissimi da mangiare ma non adatti a produrre farina. Tant’è che il castagnaccio è un prodotto tipico della Toscana e della Liguria. «In Trentino le coltivazioni più estese sono in Valsugana, dove in passato la pianta è stata sfruttata anche per il legname: particolarmente in ambito estrattivo, dal momento che il legno di castagno è molto resistente all’umidità, e infatti ancora oggi è il migliore nella paleria.
I MARRONI SONO STATI SEMPRE PIANTATI a fini alimentari nell’ottica di sostenere una economia di sussistenza. Ogni famiglia aveva le sue due, tre, quattro piante che soddisfacevano i bisogni personali. Ancora oggi è difficile che una famiglia abbia un vero e proprio bosco di castagni». Ne deriva l’impossibilità di trasformare la castanicoltura locale in una produzione privata a fini commerciali. «Queste piante, nel nostro presente, sono soprattutto una testimonianza vivente delle nostre radici, della cultura dei nostri nonni, e meritano di essere tutelate soprattutto per questo motivo. Ci parlano di tempi nei quali era difficile anche solo mangiare, tempi nei quali il bosco, anche a quote medio-alte, veniva coltivato per sostenere le esigenze quotidiane. Oggi abbiamo piante bellissime, secolari, che hanno un ciclo di vita molto più lungo del nostro, sono un legame diretto con il nostro passato. Vedere un castagno rimanda a giornate d’autunno trascorse in famiglia, quando si andava a spigolare, fa ripensare alle gite in montagna. Ed è anche per questo motivo che il castanicoltore oggi è soprattutto un appassionato».
In attesa di un intervento pubblico significativo per aiutare il settore, sul territorio ci si difende grazie all’iniziativa privata, che mira a innovare le tecniche di coltura, di difesa dalle malattie e a mettere in rete i piccoli e piccolissimi produttori, che farebbero fatica altrimenti a resistere. Le aziende castanicole nostrane d’altronde sono quasi tutte di piccola-media dimensione: in 8 casi su 10 il lavoro è a conduzione familiare. L’80% delle imprese e il 40% della superficie sono compresi nella classe di superficie fino a 5 ettari, per una percentuale che generalmente di poco supera il 20% del totale; in buona sostanza il castagneto è complementare ad altre coltivazioni. La produzione dei singoli coltivatori raramente arriva a quote importanti, che permettono una adeguata remunerazione del lavoro. Al frazionamento delle proprietà si somma uno stato di degrado di un patrimonio naturale poco sfruttato: nei boschi italiani ci sono ben 800mila ettari di castagneti, con un rapporto di 1/20 della superficie coltivata.
I castagni hanno un aspetto imponente, ma necessitano di attenzioni particolari. «È una pianta ponte tra silvicoltura e agricoltura – prosegue Leonardi – Diciamo che si arrangia, ma esige certe condizioni. Ha bisogno di sole e aria, un terreno aperto e sotto la sua chioma non deve crescere niente. Quando negli anni ’60 i nostri terrazzamenti sono stati abbandonati, perché la gente è scesa a vivere stabilmente nelle valli in seguito al boom industriale, il bosco ha iniziato a riconquistare spazio».
IN MEZZO SECOLO UN CASTAGNO può morire soffocato dal bosco, ma la cooperativa trentina che è stata fondata nel ’94 è un esempio di come si può recuperare. «Negli ultimi venti anni c’è stata una ripresa di attenzione, con il recupero dei vecchi castagneti abbandonati. L’attività vivaistica oggi è interessante, ma è soprattutto una buona potatura che può aiutare il castagno a rigenerarsi. «La corteccia è molto spessa, ma sotto ci sono le gemme dormienti. Se tagli sopra, dai origine a un nuovo ramo. A oggi bisogna difendersi dalle malattie come il mal dell’inchiostro e il cancro del castagno, e non ci sono vere altre soluzioni, se non la potatura». Alle patologie si aggiunge la siccità. «Il castagno ha un grande apparato radicale, che sa andare molto in profondità. Quando però la siccità raggiunge i livelli attuali, anche questa pianta può andare in crisi».
Tra vecchie e nuove problematiche, «grazie alla cooperativa i castanicoltori possono trovare assistenza per capire come intervenire e posso conferire le eccedenze alimentari. Quel quintale in più che cedo mi può ripagare almeno degli sforzi fatti, e a livello di sistema otteniamo quantità significative da immettere sul mercato». La condizione attuale della castanicoltura sconta comunque diverse difficoltà su tutto il territorio nazionale e ha generato una certa iniziativa legislativa: negli ultimi 12 mesi in parlamento sono stati depositati ben quattro progetti di legge in materia (a firma Cattoi, Nevi, Simiani e Caretta), volti principalmente a recuperare e valorizzare tanto la castanicoltura da frutto che da legname. Da come questo sforzo si tradurrà in strumenti concreti e duraturi in aiuto al castanicoltore – e non solo in aiuti economici temporanei- dipenderà una discreta parte del futuro della nostra produzione.
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