Lilach ha seguito volentieri il marito Michael, attirato da un lavoro di prestigio nella Silicon Valley, pensando che far crescere Adam, sedici anni, lontano dalla turbolenta realtà israeliana sarebbe stato un bene. Ma in California i tre troveranno tutto tranne che la serenità. Prima un terribile attentato contro la sinagoga locale farà emergere anche lontano dal conflitto del Medioriente i fantasmi dell’odio e del razzismo, quindi la morte di un coetaneo di Adam durante una festa tra studenti rivelerà uno spaccato di violenze e bullismo di cui quest’ultimo è stato vittima fin dal suo arrivo in America. Infine, la soluzione immaginata, un corso di autodifesa organizzato da Uri, ex militare della forze speciali di Israele, trasformerà Adam non solo in un giovane in grado di far fronte al pericolo, ma forse in una possibile minaccia per sé come per gli altri.

Con Dove si nasconde il lupo (Neri Pozza, pp. 298, euro 19, traduzione di Raffaella Scardi), Ayelet Gundar-Goshen, scrittrice, giornalista e terapeuta si conferma come una delle voci più intense della nuova letteratura israeliana, in grado di affrontare temi complessi e scomodi della realtà sociale dello Stato ebraico. Così, come già in Bugiarda (Giuntina) e Svegliare i leoni (Feltrinelli), anche la storia della famiglia israeliana che si misura con le proprie contraddizioni in una California apparentemente al riparo da ogni minaccia, che è al centro di questo romanzo, evoca uno scenario ben più ampio e pone molte domande scomode. La scrittrice sarà tra i protagonisti del festival Pordenonelegge che si apre mercoledì – il suo incontro è fissato per il 15 settembre, ore 21 a Palazzo Montereale Mantica -, mentre il 17 sarà a Firenze e il 18 a Roma in occasione della Giornata Europea della Cultura Ebraica.

Il suo romanzo ruota intorno ai diversi volti che la paura può assumere: il senso di minaccia che possiamo avvertire verso l’esterno, il timore di scoprire che non conosciamo davvero chi ci sta accanto, il cogliere in noi stessi qualcosa che ci spaventa. Da cosa è partita?
Ho cominciato a scriverlo rielaborando una sensazione inquietante che ho provato accompagnando mia figlia nel suo primo giorno di scuola materna. Guardavo con sospetto tutti gli altri bambini, cercavo di individuare i «cattivi» che avrebbero potuto farle del male. Pensavo a lei come a un’anima vulnerabile senza considerare che a sua volta poteva rappresentare una potenziale minaccia. Poi ho capito che era lo stesso sentimento degli altri genitori. Mi ricordo di aver pensato: stiamo tutti cercando il lupo che potrebbe far del male ai nostri figli, ma nessuna di noi è disposto a considerare la possibilità che quel lupo sia proprio suo figlio o sua figlia! Così, nel romanzo, una madre sospetta che suo figlio sia stato vittima di bullismo, ma in seguito vedrà anche crescere in lei il timore che lo stesso abbia commesso un terribile crimine per vendicarsi. Non volevo solo scrivere un thriller psicologico, ma anche esplorare questioni relative alla genitorialità: quanto conosciamo veramente i nostri figli? E vogliamo davvero conoscerli?

Adam, è stato effettivamente vittima di bullismo, ma nella zona in cui vive la famiglia viene anche attaccata una sinagoga: ciò che ha subito e respirato lo ha trasformato in un essere violento? Il lettore si interroga su tutto ciò, ma anche su quanto è labile il confine tra questi diversi aspetti delle nostre vite.
È ciò che volevo ottenere, visto che sono convinta che questi confini siano spesso incerti: quante volte vediamo una vittima trasformarsi in aggressore? Come terapeuta è qualcosa a cui assisto di continuo: un bambino che è stato picchiato che diventa un padre violento; una ragazza vittima di bullismo che inizia a fare la bulla per «riabilitare» la sua autostima. Allo stesso modo, come israeliana sento che il peso del trauma che gli ebrei portano su di sé conduce alcuni miei concittadini ad assumere atteggiamenti aggressivi verso i palestinesi. L’attacco terroristico contro la sinagoga californiana del romanzo si basa su un attentato vero perpetrato nel 2018 contro una sinagoga di Pittsburgh. All’epoca, molti ebrei dicevano di non aver mai immaginato che qualcosa del genere potesse accadere negli Usa. La paura si è diffusa anche in luoghi considerati sicuri. Così Lilach comincia a temere che suo figlio possa essere vittima di un attentato e lo iscrive al corso di autodifesa gestito da un ex militare: la paura che diventi una vittima la spinge a insegnarli a trasformarsi in un predatore, un possibile assassino. E penso che il popolo israeliano viva in un analogo stato di allerta permanente, sempre pronto a reagire ad un attacco. Qualcosa di brutto può succedere in qualsiasi momento e ciò che farai può o meno salvarti la vita.

Come già in altri suoi romanzi, si ha l’impressione che lei descriva un mondo che si basa sulla menzogna e sul fatto che nessuno si rivela per ciò che è davvero. Viviamo immersi nelle bugie?
Diciamo che c’è un ironico doppio standard intorno alle bugie: tutte le persone mentono, ma, d’altra parte, mentire è considerato un crimine sociale molto grave. Essere aggressivi, stupidi o cattivi è percepito come meno terribile che essere bugiardi. E questo, perché le società si basano sulla fiducia. Perciò mi interessa esplorare il ruolo così importante che le menzogne giocano invece nelle nostre vite: a volte una bugia è il materiale di cui è fatta una nazione; a volte è la colla che mantiene unita una relazione. I miei personaggi sono attraversati da sentimenti ambivalenti perché è la vita stessa ad essere così. Le storie per bambini contengono una morale. Le storie degli adulti impongono delle domande. La prima domanda che mi interessa è cosa significa essere umani, quali responsabilità morali abbiamo. A volte una bugia è molto più reale della «verità». Ad esempio, come psicologa trovo i sogni più interessanti della cronologia quotidiana: non sono veri, ma trasmettono i veri desideri e le paure molto più dei fatti oggettivi. Quando un paziente mente su qualcosa, sento che la bugia è ancora più importante della verità, perché la menzogna indica il vero desiderio o la vera paura. Eppure a volte non ci rendiamo nemmeno conto che stiamo mentendo, perché prima di tutto lo facciamo verso noi stessi: l’hybris è il peccato della borghesia liberale. Pensiamo sempre di essere dalla parte giusta, di sapere chi siamo e come funziona il mondo. Finché non succede qualcosa che ci smentisce. Come il dottore di sinistra di «Svegliare i leoni» che investe accidentalmente un rifugiato. O come Lilach che pensa di avere una mentalità aperta e liberale finché non deve fare i conti con il piccolo razzista che c’è in lei. Credo che la letteratura dia il meglio di sé quando gli autori scrivono di cose non dette. Quando, di fronte a situazioni estreme, emerge qualcosa di ciò che vogliamo nascondere.

La paura e i dubbi che crescono in Lilach assumono anche la forma di un confronto con un universo maschile che detta le proprie regole.
Stiamo parlando di una donna israeliana stanca del modello machista che domina la società militarista nella quale è cresciuta. Ha lasciato Israele per l’America perché non voleva crescere suo figlio come un guerriero. Ma dopo l’attacco terroristico alla sinagoga in California, è spaventata, spinge il ragazzo a imparare a combattere e lei stessa viene attratta dall’istruttore, che è un ex militare, quasi un simbolo di una mascolinità tossica. Ancora una volta emergono dei sentimenti ambivalenti.

Il titolo originale del romanzo, «Relocation» (Trasferimento) gioca sul fatto che la scelta di Lilach e Michael di far crescere il figlio al sicuro, «lontano dalla follia di Israele», è illusoria, visto che è a Palo Alto che si misureranno con la violenza…
Per la mia generazione, il «sogno israeliano» coincide in gran parte con la possibilità di vivere l’american dream. «Relocation» è proprio il termine (inglese) spesso usato in Israele per definire questo stato d’animo. A lungo gli ebrei sono stati attratti principalmente da Israele, ma ora qualcosa è cambiato: sempre più persone pensano che saranno più al sicuro a Palo Alto che a Tel Aviv. E Lilach incarna ogni madre che cerca un posto sicuro per la propria famiglia. Arrivando in California voleva togliersi di osso la sua identità israeliana proprio come si fa con un cappotto. Ma dopo l’attacco alla sinagoga si rende conto che il suo sogno è andato in pezzi, che da quel cappotto non potrà separarsi. Perché anche se non ti definisci ebreo, lo farà qualcun altro per te.

Il 1 novembre si vota in Israele e i sondaggi annunciano un ritorno di Netanyahu e un rafforzamento dell’estrema destra. Quanto pesano la paura e la capacità dei politici di raccontare «storie» rassicuranti o spaventose nelle scelte degli elettori?
Israele è una terra di narratori. Autori come Amos Oz e David Grossman sono stati acclamati in tutto il mondo, ma il miglior storyteller del Paese è Netanyahu. La sua più grande abilità nel manipolare le paure delle persone gli fa trascendere la mera sfera politica. La sinistra israeliana cerca di presentare un’alternativa a quanto racconta, ma è complicato quando davanti c’è chi evoca temi come «il bene supremo». L’aspetto tragico del conflitto israelo-palestinese è che, come ha scritto Oz, si tratta di uno scontro «tra destra e destra». Attraverso il riconoscimento della sofferenza di entrambe le parti, potremmo giungere a un accordo. Ma purtroppo questa «storia» non riesce a competere con la narrativa avvincente costruita da personaggi come Netanyahu.

Da un dialogo tra Lilach e Michael emerge uno degli interrogativi di fondo della società israeliana: esiste una «terza via» tra aggredire e essere vittima?
Personalmente sono convinta che se non c’è, dobbiamo inventarla. Rifiuto di vivere la mia vita e di crescere i miei figli con solo queste due opzioni all’orizzonte: uccidere o essere ucciso.