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Avvolti dal non detto, padre e figlio in un dittico di Giani Stuparich

Avvolti dal non detto, padre e figlio in un dittico di Giani StuparichGiani Stuparich (1891-1961)

Scrittori italiani Due racconti dell'autore triestino datati 1933 e 1941, da Quodlibet

Pubblicato quasi 5 anni faEdizione del 1 dicembre 2019

La figura di un genitore errabondo, che corre per mare, dal carattere umorale e spesso violento, ricorre in entrambi i racconti del dittico di Giani Stuparich, che Quodlibet manda ora in libreria: L’isola (con una nota di Giuseppe Sandrini, pp. 99, € 14,00) somma al racconto omonimo Il ritorno del padre, che precede in realtà in ordine cronologico, dato che venne pubblicato sulla rivista «Pegaso» nel 1933.

«Tutti, prima che il padre ritornasse, ne parlavano: ma adoperavano parole cattive contro di lui; e ora invece ch’era venuto, nessuno aveva più osato dire nulla di sgradevole in sua presenza». Con il figlio, gracile al punto di dimostrare una età inferiore alla sua, prova un imbarazzo paralizzante.
La sua relazione con lui passa da una prova iniziatica, in cui lo forza ruvidamente a superare il timore del buio, alla ammissione del legame con quel fanciullo che a lungo aveva desiderato abbandonare.

L’isola
, uscito a puntate su «Primato» nel 1941, riprende gli stessi personaggi, capovolgendo decisamente i ruoli. Il figlio, cresciuto, viaggia infatti dalle sue amate montagne all’isola di Lussino, incantato specchio veneziano nell’Adriatico, richiamato dal padre che dice che quella sarà la sua ultima avventura di viaggio. Una malattia lo consuma; tornando il narratore vede nel luogo magico dell’infanzia, dove ha trovato se stesso dopo innumerevoli umiliazioni, una creatura assai logora, malconcia, che misura i propri passi, che lotta per ogni azione con l’affanno che lo paralizza. Il continuo pendolo del tempo tra un presente segnato dall’alone pesante della malattia, e il passato mitico del reame crudele dell’infanzia si snoda in una prosa essenziale.

Il ritratto del genitore è crudele, quando si svolge il rito del pranzo, laddove «anche i poveri bocconi molli e triturati egli faceva fatica a mandar giù». Il cibo è ormai un ricordo; resta in quanto momento di pausa a una irrequietezza continua, il fumo, cui indulge contro ogni precetto medico: «con le dita come di avorio bruciato».

Il racconto volge al termine con la consapevolezza che l’estinzione del padre del narratore è ormai prossima. Nella notte impazza una festa di mezza estate, e la banda suona, senza freni, per intrattenere i turisti. L’incanto amaro del ricordo, si infrange quindi nella consapevolezza che l’uomo sfugge contro ogni logica alla visione della morte, incarnata dal dignitoso, ma sempre più esausto, genitore che «sostava ancora un poco sul margine della vita, prima di sparire».
Il congedo dall’isola, mentre padre e figlio prendono il battello, è quindi un addio, la coscienza amara di una perdita senza scampo. Stuparich è maestro nel cesellare dialoghi sospesi, carichi di ambiguità, in cui il non detto avvolge e quasi stritola una comunicazione scarna, prima dell’improvvisa epifania.

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