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Avanza in area la parità

Avanza in area la paritàAnnalie Longo (New Zeland) in azione

Sport La rivendicazione per lo stesso salario dei colleghi maschi, le atlete del calcio femminile della Nuova Zelanda lo hanno ottenuto

Pubblicato circa 6 anni faEdizione del 30 giugno 2018

Prendere a calci un pallone, finalmente per la stessa paga. In attesa che in Italia il calcio femminile si riservi un minimo di credibilità ma anche diritti – è decisamente lontano l’orizzonte verso il professionismo – in altri Paesi del mondo si registrano concreti passi in avanti. Stavolta ad andare a segno è la nazionale della Nuova Zelanda, che recentemente, con l’accordo siglato tra la federazione, la New Zealand Football, con l’associazione calciatori, si è vista garantire lo stesso salario dei colleghi. E non solo. Prevista per le calciatrici anche la medesima cifra per rimborsi spese, materiale tecnico, diritti come la pensione. Insomma, un enorme passo in avanti per il movimento calcistico femminile. E una sentenza storica, con il Paese australe che aveva già fatto parlare di sé in positivo con il contratto da professioniste offerto alle Black Fems, la nazionale femminile di rugby, le colleghe dei celebri All Blacks. E lo stipendio per le giocatrici di rugby, prima del balzo nel professionismo, era un rimborso spese da poche centinaia di euro mensili.

IL GENDER GAP DEL CALCIO IN EUROPA

Ma la svolta neozelandese segue di qualche mese la rivoluzione del pallone per le donne norvegesi, per cui la sfera che rotola verso la porta è stato un anatema sino a 41 anni fa. E ora, invece. Parità salariale per calciatori e calciatrici in Nazionale. L’accordo sul pari trattamento economico è stato siglato a Londra qualche mese prima, dopo l’intesa negoziale tra le parti arrivata qualche tempo prima. La stretta di mano tra i capitani delle nazionale maschili e femminili norvegesi ha sancito un accordo che prevede l’innalzamento dello stipendio medio delle calciatrici (poco medio del doppio di quanto percepito in precedenza), che sarà identico – circa 620 mila euro – a quello degli uomini, che hanno accettato di ridursi i compensi di circa 60 mila euro. Ma il gender gap nel calcio è sul tavolo da diverso tempo. Una delle ultime analisi del centro studi dell’Uefa, il Cies Observatory, ha mostrato che l’ingaggio annuale garantito dal Pari Saint Germain al brasiliano Neymar, intorno ai 30 milioni di euro annui, era pari alla somma complessiva degli stipendi delle migliori calciatrici di sette Paesi. Uno squilibrio obiettivamente complesso da colmare, almeno a medio termine, ma passi in avanti sono arrivati anche dal Nordeuropa, con la nazionale femminile danese che nel settembre dello scorso anno ha annullato un’amichevole con l’Olanda per contrasti sui salari con la federazione. E solo l’intervento della squadra maschile, che offriva quasi 80 mila euro alle ragazze per coprire i costi dei loro impegni agonistici, ha poi scongiurato l’ipotesi di uno sciopero. La stessa forma di protesta ventilata dalle colleghe irlandesi verso la federazione, perché “trattate come cittadini di quinta classe”, dopo l’invito a cambiarsi nei bagni – anziché in uno spogliatoio – prima di una partita.

USA, IL PALLONE FEMMINILE AL CONGRESSO

E questa specie di class action del pallone femminile, in cerca di diritti e stipendi come i colleghi ha trovato sponda negli Stati Uniti, arrampicandosi fino al Congresso. Nell’aprile 2017 la senatrice dem Patty Murray avviava le pratiche in Senato per l’iter legislativo che avrebbe poi portato alla firma di un accordo quinquennale tra atleti, atlete nazionali e la federcalcio statunitense, la U.S. Soccer, che stabiliva la pari retribuzione tra uomini e donne. In precedenza, cinque calciatrici della nazionale a stelle e strisce – tra cui il portiere Hope Solo, personaggio celebre, fortemente mediatico, che si è poi candidata alla presidenza delle federcalcio americana, ingaggiando anche una battaglia personale contro l’ex presidente della Fifa, Joseph Blatter, accusato di molestie sessuali – avevano inviato un reclamo ufficiale alla Commissione per le pari opportunità sul lavoro degli Stati Uniti (Equal Employment Opportunity Commission) in cui accusavano la U.S. Soccer, la federcalcio, di discriminare le calciatrici nelle retribuzioni. Ragazze pagate fino al 40% in meno rispetto agli uomini (la nazionale statunitense, tra l’altro, è detentrice della Coppa del Mondo e con l’oro olimpico al collo), un dettaglio che ha poi spinto il New York Times ad aprire i registri contabili della US Soccer, che mostravano ampiamente il divario alla voce pagamenti tra i due sessi.

E L’ITALIA?

Invece la crescita, in termini di spazi e diritti, del calcio femminile italiano procede a rilento. Secondo le stime dell’Uefa, l’anno scorso le calciatrici tesserate in Europa sono cresciute del 7,5% rispetto al 2016, con quasi un milione e mezzo di praticanti. E se Inghilterra, Francia, Germania, Olanda e anche realtà più piccole come Norvegia e Svezia contano almeno 100 mila praticanti, nel nostro Paese sono poco meno di 25mila, in crescita rispetto agli anni precedenti, il 7% in più, ma con un quarto delle professioniste rispetto agli altri Paesi. Una stima che fa pari con lo scarso tesoretto messo a disposizione dalla Gifc, 4,2 milioni di euro nel 2017. Meno della metà della cifra investita da Inghilterra e Francia. La questione ha appena sfiorato il Governo: lo scorso ottobre Maria Elena Boschi, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, attraverso un post sul suo account Facebook sollecitava un intervento del ministero dello sport sul pari trattamento economico tra calciatori e calciatrici. Risultato? Nulla di fatto, con pioggia di interventi ironici sui social all’indirizzo della Boschi, con gli utenti che invece esortavano i politici a equiparare il loro stipendio a quello di impiegati e operai. Sullo sfondo, la legge del 1981 che esclude le donne dal professionismo, nonostante il campionato femminile abbia registrato un interesse crescente, con la finale tra Juventus (vincitrice) e Brescia. E se un passo in avanti potrebbe essere rappresentato dalla fine della dipendenza di Serie A e Serie B dalla Lega Dilettanti, la strada verso il pieno riconoscimento di diritti – economici e non – delle ragazze del pallone in Italia è lunga, lunghissima.

 

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