Autonomia, intesa parziale e già bocciata dalle regioni
Governo Dopo il lungo vertice notturno a palazzo Chigi, i presidenti di Lombardia, veneto ed Emilia Romagna protestano: «Una riformicchia non ci interessa». Ancora in alto mare l'accordo sull'iter parlamentare, lunedì nuovo round tra Lega e M5S
Governo Dopo il lungo vertice notturno a palazzo Chigi, i presidenti di Lombardia, veneto ed Emilia Romagna protestano: «Una riformicchia non ci interessa». Ancora in alto mare l'accordo sull'iter parlamentare, lunedì nuovo round tra Lega e M5S
Una schiarita sulla questione delle risorse, niente di fatto sul nodo delle competenze del parlamento nell’introduzione dell’autonomia differenziata per le tre regioni (Lombardia, Veneto, Emilia Romagna) che la chiedono. Questo il bilancio del mega vertice notturno di mercoledì a palazzo Chigi (quasi un Consiglio dei ministri), che quindi malgrado fosse annunciato come decisivo prelude a un nuovo appuntamento. Lunedì si parlerà dell’iter della legge in parlamento, ammesso che prima o poi il governo riuscirà a mettere a punto una proposta e che le tre regioni la accettino. L’accordo andrebbe a quel punto trasfuso in un disegno di legge – quanto dettagliato è argomento di contrattazione – che il parlamento dovrà approvare. Come?
Se la Lega – grande sponsor della riforma – fino all’altro ieri spingeva per un passaggio solo formale – relazione di Conte, rapido esame delle due commissioni bicamerali che si occupano di questioni regionali – adesso Salvini apre al coinvolgimento delle commissioni di merito. Che sono tante, e in tutti e due i rami del parlamento, vista l’ampiezza delle materie che le regioni chiedono di poter amministrare direttamente (23 materie Lombardia e Veneto, 15 Emilia Romagna). Questa «concessione» del vicepremier – obbligata visto che si tratta di una riforma di portata costituzionale – non risolve molto, perché il punto è se le commissioni e poi l’aula potranno o no emendare il contenuto degli accordi stato-regioni. Il presidente della Lombardia ha capito il rischio e ieri ha dichiarato: «L’accordo non può essere modificato in assenza delle regioni. Per essere modificato un accordo tra due persone serve che quelle due persone siano presenti. È una procedura che dovranno ancora chiarire».
L’allarme del governatore Fontana suona anche sulla questione delle risorse: «Una riformicchia non mi interessa», dice. E come lui anche il presidente del Veneto Zaia – «io non firmerò un accordo a ribasso, vogliamo un’autonomia vera con le 23 materie» – e il presidente dell’Emilia Romagna Bonaccini: «È un anno che ogni settimana il governo ci dice che la settimana successiva firmeremo per l’autonomia. Ci si dica sì o no, non siamo gente abituata a farci prendere in giro».
Il fuoco di sbarramento si spiega con l’intesa che i 5 Stelle e i leghisti hanno firmato nella notte del vertice, grazie alla presenza del ministro Tria che ha ripetuto ancora una volta come lo stato centrale non possa essere messo di fronte al dilemma se aumentare la spesa o tagliare le prestazioni alle regioni meno ricche. Il nodo è ancora quello della quantificazione della componente regionale della spesa per le prestazioni pubbliche, una volta effettuata la quale il meccanismo prevede che la regione possa trattenere una corrispondente quota di Irpef.
I 5 Stelle hanno ottenuto dalla Lega un prolungamento del periodo nel quale la spesa regionale sarà conteggiata con il metodo del costo storico (da uno a tre anni), cancellando la fase intermedia originariamente prevista nelle prime bozze, durante la quale la spesa doveva essere calcolata con il metodo dei costi medi nazionali . Si tratta comunque di criteri che penalizzano, più o meno, le regioni del Sud, nell’attesa che vengano stabiliti i livelli essenziali delle prestazioni. Attesa che però dura dalla riforma del Titolo V, cioè da 18 anni.
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