Visioni

Autofinzione (compiaciuta) del regista. Inarritu e l’esibizione del filmare

Autofinzione (compiaciuta) del regista. Inarritu e l’esibizione del filmareUna scena da «Bardo. La cronaca falsa di alcune verità»

STREAMING «Bardo. La cronaca falsa di alcune verità», su Netflix il film del regista messicano che era in concorso alla Mostra di Venezia

Pubblicato quasi 2 anni faEdizione del 24 dicembre 2022

Giornalista televisivo che ha lasciato il suo posto per essere libero da censura e controlli, documentarista di successo, emigrato dal Messico a Los Angeles dove sta per ricevere il più importante premio di giornalismo americano, Silverio ha paura dei momenti di felicità e si lascia sopraffare dai sensi di colpa dei fallimenti. Ma chi è davvero quest’uomo sulla sessantina spaesato nel labirinto dei rimpianti e delle scelte, in un tempo frammentato di memorie che ripercorre la sua vita tra i conflitti della propria arte e le idee nelle sue parole, i lampi dell’infanzia cattolica e borghese in Messico e la polemica distanza dal proprio Paese? Lo celebrano ma anche lo accusano i suoi amici messicani di «leccare il culo» ai gringos, gli dicono che non conosce più il mondo quale è. Per Silverio però la realtà si coglie solo nella finzione e la libertà esiste nell’immaginazione mentre si sente sempre più in bilico in quel tempo che si accartoccia, che lo porta tra l’America e il Messico.

DOPO il concorso alla scorsa Mostra di Venezia, Bardo. La cronaca falsa di alcune verità di Alejandro G. Inarritu, è in piattaforma (e tra i titoli Oscar), non un’autobiografia – come ci suggerisce il titolo e confermano le continue dissertazioni del protagonista sul rapporto tra finzione e realtà – anche se è evidente, e lo afferma egli stesso, che si nutre della vita del regista messicano, anche se stabilire cosa è «vero» e cosa no poco importa: possiamo chiamarla un’autofinzione nella quale Inarritu compone il proprio Amarcord (e Fellini è solo una delle molte citazioni) ripercorrendo nel viaggio del suo personaggio le vicende personali e del Messico «dentro» al suo cinema scomposto e ricomposto, osservato a distanza e quasi nel suo «interno». Da Amores Perros (2000) che lo affermò scritto insieme a Guillermo Arriaga col quale ruppe ai tempi di Babel (2006), fino all’arrivo a Hollywood (con 21 grammi nel 2003). E il successo, l’Oscar vinto più volte, tutto suggerito e insieme evidente, una filigrana da cui affiorano la storia del Messico, i secoli di feroce colonialismo spagnolo, i massacri degli indios, l’onnipresenza americana.

QUESTA «cronaca dell’incertezza» come la chiama Silverio (Daniel Jimenez Cacho) si presenta però da subito soprattutto come l’occasione per esibire al massimo il compiacimento del proprio gesto cinematografico, tronfio sin dagli esordi, in cui «l’immaginazione» (quello spazio libero tanto acclamato) si confonde col virtuosismo e la potenza di un budget miliardario. Ecco allora il formato di riprese in 65 millimetri – fotografia è firmata da Darius Kondji – e la continua fastosità di un malinteso barocco di droni, carrelli, onirismi e quant’altro per tre ore. Quale è il loro significato? Invece di aprire (i cuori, le teste) l’impressione è di soffocare, chiusi nei confini di questo universo altisonante del maschio che si rivolge a sé, dove il resto appare accessorio, e contraddetto da quanto vediamo. Inarritu stratifica l’intero immaginario messicano e dell’America latina, musica, icone, processioni, apparizioni, letteratura, visioni fantastiche: un mix che tritura il realismo magico nel format Netflix svuotandolo della sua «poesia» provocatoria, ‘affermazione di un sincretismo che si opponeva alla narrazione coloniale. Che rimane infine? L’esibizione del proprio filmare. Troppo o troppo poco ma forse oggi la verità del falso è solo questa.

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento