Opera prima del regista e critico cinematografico indonesiano nato nel 1990 Makbul Mubarak, Autobiography – Il ragazzo e il generale disegna il ritratto di «dipendenza» – e infine di riscatto, ma lasciando aperto il finale su cosa/chi potrà davvero diventare – del giovane Rakib nei confronti del generale in pensione Purna tornato nella sua dimora in un villaggio dell’Indonesia rurale per svolgere una campagna elettorale. Quella villa, dagli spazi enormi e vuoti, vede Rakib in veste di custode fin quando il ritorno di Purna cambierà radicalmente il corso degli eventi.

DA SUBITO, Mubarak mette in campo la relazione tra i due personaggi (ben interpretati da Kevin Ardilova, nel ruolo di Rakib, e Arswendy Bening Swara in quello di Purna). Di fronte, un ragazzo silenzioso e timido – il cui fratello è emigrato illegalmente a Singapore per lavorare, mentre il padre è in prigione per essersi opposto con un atto di sabotaggio all’esproprio di terre per lavori di costruzione di una centrale che dovrebbe portare l’elettricità – e un uomo senza scrupoli, corrotto e assassino, che non indietreggia davanti a nulla al fine di portare a compimento la sua missione e sfoggiare con maniere subdole il suo potere. «Fai attenzione di chi fidarti», dice il padre a Rakib quando va a trovarlo in prigione.

Siamo nell’Indonesia del 2017 e Mubarak, ispirandosi alla sua adolescenza vissuta sul periodo terminale della dittatura, costruisce una «partita a due» che si dipana nel corso di tutto il film. Come una partita a scacchi, gioco non casualmente inserito in alcune scene e con un quadro-scacchiera appeso in una parete della villa. Le atmosfere sono claustrofobiche, una claustrofobia diffusa attraversa il film, c’è un costante ritorno a luoghi dai quali non si riesce ad allontanarsi, anche quando ciò sembrerebbe possibile (e il finale carico di sospesa ambiguità ne è esempio perfetto e inquietante). Mentre crescono la sottomissione di Rakib a Purna e i gesti efferati di quest’ultimo. Quasi mai tali espressioni psicologiche e fisiche sono rese con esasperazione, quasi sempre si manifestano con i silenzi, gli sguardi, i dialoghi detti a bassa voce ma con fermezza dal generale oppure con timore dal ragazzo. In un testo che adotta una struttura aderente alla narrazione: apparentemente calma, avvolgente nei movimenti di macchina da presa e nelle luci (con qualche vezzo cromatico flou), ma al tempo stesso portatrice di una tensione crescente nella sua orizzontalità di sguardo che non abbandona mai.

In tal senso, Mubarak adotta una visione dall’interno, all’altezza e non al di sopra dei personaggi (oltre ai due principali ce ne sono altri e c’è la comunità del villaggio alla quale dare spazio in alcune scene), «notturna», per esplorare tanto il set principale quanto altri posti che contribuiscono alla composizione di un quadro ampio dell’ambiente (il film è stato girato nella regione di Bojonegoro a Java Est): il ponte, il piccolo fiume, le rocce, la vegetazione, il locale dove nel retro si compiono traffici, le case e i quartieri poveri abitati da lavori in corso.

NEL RISPONDERE a una domanda precisa – «in una società con una tale storia di repressione, cosa ci vuole per potersi definire “una brava persona”?», si chiede Mubarak nelle note di regia – Autobiography (in sala da oggi – era alla Mostra di Venezia del 2022) allarga anche il campo ad altri argomenti, come quello di chi è costretto a lasciare il proprio Paese per cercare fortuna lavorativa altrove o quello della brutale repressione, impunita, condotta da un potere militare verso chi dissente.
Rakib ne diventa parte, prova a ribellarsi, piange alla morte di un amico, tenta la fuga, ma si ritrova al «punto di partenza», ancora tra le mura, e le memorie, di quella villa, filmato di nuca e di volto nelle ultime inquadrature. Campo e controcampo per un giovane la cui immagine, poco prima, si era vista riflessa in un vetro a indicare un’identità ancora indefinita stretta tra cambiamento e potere.