Innanzitutto, un libro scritto in italiano. Occorrenza troppo rara per passarla sotto silenzio. In Opera, neutro plurale (il Saggiatore, pp. 416, € 26,00), Emilio Sala indulge solo a uno sciatto «impressivo» e – errore blu – usa «ruolo» invece di «parte» nel riferirsi ai personaggi sacrati alla scena o allo schermo o al microfono, Violetta come Amleto come Scarlett O’Hara. Tutto il resto scorre schietto e vivace, leggibile al massimo, tranne forse la Premessa, compressa, a tratti oscura (almeno per il sottoscritto, dalle limitate facoltà astrattive). Ma niente paura: i concetti, ontologici teorici storici, connessi al fenomeno «opera lirica» sono ripresi e svolti in più luoghi, esemplarmente nelle Riflessioni conclusive, 41 pagine dove ogni assunto s’illimpidisce come acqua di fonte.

Pregio massimo del volume, la sua sincerità. Se nessun testo può dirsi estraneo alla persona (mentale e fisica) che lo redige, nel caso specifico codesta persona l’abbiamo dinanzi a ogni pagina. Fin dal titolo l’autore ci fa sapere in forma solenne e ufficiale che l’«opera è soprattutto un neutro plurale: contiene tante cose e va continuamente ripensata». Di ciò egli narra (le argomentazioni sbocciano sempre dal racconto) nel prologo succinto, in 80 voci disposte in ordine alfabetico come un glossario – ora più ora meno lunghe, sono tra loro correlate da frequenti rimandi interni –, nel citato epilogo. Da ogni paragrafo zampillano la melomania genuina e la vasta cultura, i campi d’indagine sondati in diecine di saggi scientifici e articoli divulgativi, persino le conversazioni private (ancorché non riportate come tali: delle analogie tra Il trovatore fiorentino con la regìa di Ronconi e quello inscenato da Bertolucci nel film La Luna, rammento di avergli parlato anni fa), dello stimato docente di musicologia alla Statale di Milano.

Un libro di oltre 400 pagine, prodigo d’idee, molte delle quali originali e stimolanti, qualcuna discutibile, sagomate ora sulla psicoanalisi lacaniana ora sul dernier cri musicologico, teatrologico, antropologico, sociologico, estetico…, e di notizie poco o nulla note (con qualche inevitabile imprecisione), non si recensisce in 60 righe. Mi limiterò pertanto a trascegliere, tra i tanti spunti di riflessione, uno di quelli atti a innescare la polemica.

Una lettura dell’opera come pluralità, come «spazio neutro o ibrido» in cui trovano posto quasi tutte le forme di teatro in e con musica fiorite in Occidente (opera, operetta, musical, ecc.) e in Oriente (opera di Pechino e kabuki), insiste, è ovvio, sulle analogie tra i vari generi: in teoria si respingono gli «universali transculturali», nei fatti il rischio di abbracciarli sussiste. Quest’opera dalle molte facce è poi (re)interpretata «in una prospettiva performativa». Posizione sacrosanta in àmbito musicale; solo che la performance è per lo più declinata in chiave visiva – anche l’indugio sulle prassi esecutive storicamente informate «culmina nel connubio» tra questo approccio alla musica e «uno stile registico provocatoriamente attualizzato». Senza dubbio un consumo operistico «a dominante uditiva» (radio, disco) ha ceduto il passo, negli ultimi trent’anni, a un consumo «in video» (dvd, computer, telefonino, cinema). Da questa primazia della dimensione iconica consegue una parcellizzazione estrema dell’ascolto. Non direi, con Sala, che il «feticismo della voce appartiene ormai al passato» (l’idolatria per certi cantanti perdura, i pezzi celebri sono tuttora attesi con trepidazione), tuttavia l’orecchio fatica sempre più a svolgere la propria mansione, insidiato, com’è, da un subisso di stimoli visivi sulla scena. E ciò indipendentemente dal fatto che lo spettacolo rientri o meno nel filone, esecrabile per alcuni benedetto per altri (tra cui l’autore), del Regietheater. Tutti questi mutamenti e novità attestano, per Sala, la vitalità e modernità dell’opera. Io la penso come lui, ma continuo a credere che nel teatro in/con musica prima inter pares debba essere questa e non altro.