Peter Paul Rubens, «Sant’Agostino in riva al mare», 1636-’38, Praga, Sant’Agostino
Peter Paul Rubens, «Sant’Agostino in riva al mare», 1636-’38, Praga, Sant’Agostino
Alias Domenica

Autobiografia, costruzione narrativa dell’identità

Critica letteraria La genesi dell’autobiografia da Agostino-Rousseau alla svolta novecentesca: «Il narratore postumo» (Quodlibet), studio di ampia gittata di Sergio Zatti
Pubblicato 4 mesi faEdizione del 2 giugno 2024

Si impara molto, di questioni di metodo e di merito, leggendo l’ultimo libro di Sergio Zatti, Il narratore postumo Confessione, conversione, vocazione nell’autobiografia occidentale (Quodlibet «Saggi», pp. 569, euro 28,00). Uno studio di ampia gittata, ricco nel suo svolgimento, originale e suggestivo in molti momenti di riflessione personale, su un tema vasto e di grande attualità, in tempi in cui, non il Soggetto, ma proprio un bulimico pronome Io invade ogni forma di scrittura, persino quella dei necrologi.

Zatti ci conduce all’interno della «storia segreta» dell’autobiografia, genere relativamente moderno, di cui scandisce le tappe in quattro sezioni che aiutano a conoscerne l’origine e lo sviluppo temporale (con al centro Agostino e Rousseau), e l’insorgenza problematica rispetto ad altre forme di narrazione, per finire con una manciata di prelievi da autori e autrici che in forma esemplare riattraversano tutto l’arco temporale, fino al Novecento.

È bene dunque seguire i suoi passi per cercare di rendere chiaro questo percorso, a partire dalle prime righe della Premessa che incardina il testo: «Questo è un libro sull’autobiografia d’autore, ma non solo. È anche una riflessione sulla storia dell’Io in letteratura e sulle forme e le strategie della autorappresentazione. Intende documentare l’evoluzione degli assetti testuali del récit de vie in quanto forma codificata di scrittura quali emergono in rapporto alle mutanti concezioni del Soggetto nel corso della sua storia culturale». Storia, forme, strategie, riferite a mutamenti profondi di ordine filosofico e letterario, che chiamano in causa la costruzione di sé, tra fiction romanzesca e verità storica, tra verità e storia, tra memoria e verità, tra rappresentazione e autorappresentazione. Non di «una semplice pratica di scrittura» si tratta, ma di un genere che ha agito su questa pratica «con un effetto di retrospezione».

Circa tredici secoli e mezzo separano quelle due confessioni che costituiscono lo schema retorico del racconto autobiografico, segnando due tappe cruciali. Alla fine del Trecento, le Confessioni di Agostino, a metà del Millesettecento quelle di Jean-Jacques Rousseau, indicano due momenti in tensione con i quali si misurano le forme assunte nei secoli dal racconto di sé. Agostino scrive nove libri dedicati a una vita vissuta nel peccato e nell’errore, e quattro di riflessione filosofica che nei libri X e XI affrontano due temi inaggirabili, la memoria e il tempo. Sommo retore, Agostino stende le sue Confessioni come racconto drammatico di un io in lotta strenua con se stesso, racconto internamente dialogico, che sdoppiando il destinatario – la confessio degli errori rivolta a Dio, la narratio di quegli stessi errori agli uomini – raddoppia anche i piani temporali della rappresentazione di un Sé prima e dopo la conversione. Di questo racconto, della scena dell’apertio libri, che sarà un topos dell’autobiografia profana, Zatti indaga i «meccanismi dell’iterazione e della mimesi», indicando nel ricordo di infanzia del furto delle pere una vera «esplosione» dell’agostiniana febbre mimetica.

Anche Rousseau costruisce la memoria autobiografica a partire da due «storie giudiziarie», la sculacciata ricevuta all’età di dieci anni da una giovane istitutrice, punizione che mescolando sensazioni diverse, dolore, vergogna e piacere, sarà determinante della futura soddisfazione erotica e sessuale, e il furto di un nastro di cui, adolescente sciocco e infatuato, accusa ingiustamente la giovane cuoca della contessa di Vercelli. Ancora punizione, vergogna, cui Zatti intreccia, con coerenza, i due «romanzetti d’amore». Tra le molte questioni sollevate dal testo, che ha sempre il ricordo d’infanzia come sua origine e volano, con Rousseau il discrimine interessante mi pare l’insistito appello al lettore che si vuole testimone e correo della propria sincerità, autenticità d’autore. «Sembra che l’autoapologia rappresenti, insieme, la premessa e l’inevitabile conclusione dell’‘autoanalisi’ di Rousseau» scriveva Mario Lavagetto in un testo memorabile, La cicatrice di Montaigne, ed è proprio in ragione dell’«espressione del sé» che nasce la necessità di prendere le distanze da Montaigne, dal suo volersi impronta di ogni condizione umana. Una questione che apre a una interrogazione continua, perché Rousseau nel narrare la «storia della sua anima» o, laicamente, del «suo carattere», si è reinventato come personaggio, e dunque ha intrecciato l’autobiografia con il novel, di cui il suo secolo, con la nascita dell’individuo borghese, è culla consolidata.

Nella «costruzione narrativa dell’identità», molti sono gli autori convocati da Zatti, altrettanti gli esempi letterari, perché questa ermeneutica chiama in causa il ricordo, la memoria, l’oblio, l’intermittenza, con incursioni che passano da Baudelaire a Stendhal, Proust, Benjamin, da Borges a Sebald e Perec, e poi ancora a ritroso fino all’Ariosto… All’alba del Novecento, il nuovo carico della scoperta psicoanalitica di un Io che «non è più padrone in casa sua» (Freud), anzi capace di perfetti «ricordi di copertura», modifica alla radice i materiali conficcati nell’infanzia. E di nuovo Zatti si confronta con un excursus ampio e profondo, di cui andrebbe seguita ogni modulazione, a partire proprio dalla convinzione freudiana che il progetto autobiografico sia non uno «strumento di conoscenza», ma una «costruzione della personalità», e che «nessuna testimonianza è più sospetta della nostra», sospetto che si riverbera su ogni récit d’enfance e sul récit de vie. E a dimostrazione esemplare basti La coscienza di Zeno di Svevo, che «svela la natura sostanzialmente anti-idilliaca del ricordo d’infanzia postfreudiano», a partire dalla negazione umoristica della possibilità stessa «di accedere alle memorie d’infanzia».

Se la confessione in età cristiana ha fissato la forma storica del genere autobiografico nel récit de vie, quando intorno al Seicento questa si secolarizza offre il fianco alla famosa indagine foucaultiana di Sorvegliare e punire, analisi serrata del suo carattere repressivo e di controllo totale, che secondo Zatti non coglie di questa pratica, come invece vede Frederic Jameson, l’istanza potenzialmente liberatoria e l’apertura di «impensati spazi di resistenza». Attraversare le contraddizioni interne alla forma permette di arrivare a quella definizione di «formazione di compromesso» in cui, al di là della censura, può sopravvivere una verità dell’io. Di nuovo tra «tribunali domestici», maschere ed esibizioni di sé, dall’Alfieri al Tasso, da Molière all’incantevole Princesse de Clèves di Madame de la Fayette, arriviamo alla miscela di narcisismo e voyeurismo che scorre senza scampo nei social, infettandoli. Quest’ultima narrazione non ricorre certo alla strategia discorsiva che ha usato la metànoia, il cambiamento spirituale dell’uomo nuovo «giudice» delle colpe dell’uomo antico, né si muove nel teatro di una coscienza in grado di tollerare lo svelamento dell’autosimulazione, automanipolazione. La rappresentazione di sé, oggi, è quasi spontaneamente affidata ad anonimi algoritmi del web.

Prima di questa deriva, altri passaggi hanno segnato il genere autobiografico, intercettando con Walter Benjamin ed Elias Canetti il passaggio che sostituisce il récit de vie con il récit d’enfance, e fa ritorno, non a caso, a Rousseau, inventore dell’infanzia stessa. Si pone qui una questione di ordine generale che ritengo decisiva, in ragione della quale mi si perdoni il salto di molte altre riflessioni. Con il filosofo ginevrino, secondo Zatti, si legano in cortocircuito, in una prospettiva secolarizzata, infanzia e morte. Su questi due momenti che segnano la vita di ciascuno, lo scrivere, nella tradizione del pensiero maschile, ha significato molto spesso un desiderio di immortalità legato all’idea della rinascita, di un rimettersi al mondo teso a negare la morte, cancellando la semplice verità della nostra origine, ovvero che siamo mortali perché nasciamo da un corpo mortale, quello della madre. Con Rousseau (ma gli esempi si possono moltiplicare a piacere) «la vera nascita è quella che noi ci diamo da noi stessi raccontando la nostra storia, talché noi siamo, in certo modo, partoriti dai nostri ricordi». Il mito dell’autogenerazione, di lunga tradizione, è con evidenza un mito falso, fasullo, eppure continuamente riattualizzato.

In realtà, se è vero come ci ricorda Zatti citando Hannah Arendt che «una vita non raccontata rischia di andare perduta, e con essa tutto quel grumo di senso che può rendere la storia dell’umanità sempre meno ‘insensata’», è altrettanto vero che quest’affermazione va letta alla luce di tutta la sua riflessione sull’unicità del venire al mondo. Questa filosofia della nascita, concentrata nella formula «Essere e Apparire coincidono», si propone come contraria all’heideggeriano essere-per-la-morte, ed è stata magistralmente interpretata da Adriana Cavarero. La nascita come condizione ontologica, l’unicità dell’inizio considerato nella sua relazionalità, come in María Zambrano, oggi si impongono al pensiero sia femminile sia maschile. Dunque da una diversa prospettiva si può guardare, sempre molto tralasciando del libro di Zatti, a quell’ultima parte in cui, dopo i carotaggi che riprendono precedenti temi e problemi (Dante, Petrarca, Tasso, Cellini, Vico, Alfieri, Sartre) arriviamo a Simone De Beauvoir e Mary McCarthy e al modernismo di Joyce e Woolf. Nomi già incontrati, a partire dalle righe in cui Francesco Orlando rileva come il ricordare di Stendhal nel suo Brulard abbia valore euristico e non testimoniale, come la scrittura sia «interrogazione» della memoria, costruzione di identità, tanto più nel Novecento.

Identità come spazio supremo della ricerca moderna e contemporanea? Non credo valga per tutti, se quel tutti comprende anche le donne. Prendiamo ad esempio le molteplici scritture di Virginia Woolf, romanzi, racconti, saggi, lettere, diari e quell’unica autobiografia mai scritta che si intitola Momenti di essere e scopriremo che al di là di ogni possibile lettura sulla fluidità dell’Io (Orlando), sulla fine dell’egemonia stessa dell’Io, sulla sua decostruzione, meglio demolizione, a partire da una posizione di autentica outsider che crea per sé la stanza della propria autorialità, il cuore della sua esperienza, dello scrivere e del vivere, è la nascita della sua stessa soggettività. Prendere parola sul mondo, affermarsi come soggetto che non può più essere parlato dall’Altro, è la straordinaria impresa che lei ha saputo compiere, senza desiderare l’immortalità, senza negare l’origine («Eccola, mia madre, al centro della vasta cattedrale che era l’infanzia; era là dall’inizio»). E quanto al soggetto che scrive e di cui si scrive, l’oggettivazione che prende figura autobiografica in Momenti di essere è piuttosto spoliazione e disidentificazione dell’io, annullamento della personalità, mossa vertiginosa che si inscrive nel tessuto multiplo di tutte le relazioni che la fanno essere proprio perché la disfano di ogni identità, non solo mentre scrive, ma mentre vive.

Forse, alla fine, è una donna, Virginia Woolf, a riconsegnare all’autore le stesse domande che percorrono in limpida scrittura il suo testo, domande formulate da una scrittrice che senza proclami ha sovvertito il genere autobiografico: chi è il soggetto dell’autobiografia? Come è costruito il senso di una vita, come se ne decide la scansione temporale, da dove si comincia? Qual è il ruolo della memoria, quale quello dell’oblio? Del detto e del non detto? Quanto contano immaginazione e immaginario? Non sono forse inventati anche i nostri ricordi, necessariamente incrostati dagli anni e dai tanti racconti in cui si sono già riversati?
Domande cui, dopo di lei, donne e uomini non rispondono, credo, allo stesso modo.

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