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L’ultimo assalto al monte sacro

L’ultimo assalto al monte sacro

Australia Si chiama Uluru e per gli aborigeni australiani è un montagna sacra. Per i tanti turisti è una meta prediletta. Ma da oggi non si potrà più scalare, grazie a una battaglia durata anni

Pubblicato circa 5 anni faEdizione del 26 ottobre 2019

Gli aborigeni li chiamano minga, come le formiche nere che popolano l’outback fabbricando nidi grandi come frigoriferi. E come insetti li vedono arrampicarsi su quella roccia che essi ritengono sacra e chiamano Uluru e i bianchi Ayers Rock, in fila indiana cominciando dopo l’alba, interrompendosi quando fa troppo caldo. Sono turisti, i minga, in schiacciante maggioranza australiani.

Oltrepassano allegramente il cartello in sette lingue “Per favore non scalate” e cominciano l’ascesa. Lottano contro il tempo: dopo decine di anni di scalate, il luogo sacro sta per tornare ciò che era prima che la Gran Bretagna decidesse di edificare la più grande colonia penale della storia.

Era il 1872 quando Ernest Giles e i suoi esploratori scoprirono l’enorme sasso che sporgeva dall’orizzonte, lo giudicarono “una pietra notevole” e passarono oltre, impediti a raggiungerlo dai cavalli morenti. L’anno successivo la spedizione di William Gosse lo riscoprì e lo battezzò Ayers Rock per adulare l’allora governatore del Sud Australia, nato povero in Gran Bretagna, emigrato come carpentiere con i passaggi gratuiti per i coloni e terminato come gestore di una miniera che lo aveva reso ricco, potente e baronetto: sir Henry Ayers.

Era la parabola della colonizzazione australiana, un inviato del re con un pugno di soldati e molti galeotti stipati sulle navi più marce del regno, con le famiglie al seguito. I prigionieri non avevano diritto al rancio. Le mogli mantenevano spesso i figli liberi sulla tolda e i mariti chiusi nella stiva con lo strumento tradizionale delle donne disperate.

I padri pellegrini dell’Australia non erano puritani integralisti come quelli sbarcati in Virginia un secolo e mezzo prima, ma in larga parte forzati che intasavano navi così malconce che i Lloyds non volevano più assicurarle, e che i proprietari affittavano alla Corona come carceri galleggianti. La vulgata che li vuole irredentisti repubblicani è un’invenzione: erano ladri e truffatori – i reati contro la proprietà erano puniti molto più severamente di quelli contro la persona – e ad una elite criminale, i falsari, si devono le monumentali facciate delle ville padronali ottocentesche e l’intera produzione artistica della colonia. Esportati come manodopera coatta per quasi ottant’anni, popolarono le coste australiane provvisti di tecnologia bellica, monoteismo e proprietà privata. La popolazione autoctona era il loro esatto opposto, e la specie superiore sterminò fisicamente gli untermenschen, un genocidio più lungo, duro e profondo di quanto abbiano mai patito i nativi americani e canadesi.

Oggi quasi tutti i pommies – termine spregiativo per i discendenti dei britannici – hanno un borsaiolo nell’albero genealogico.

Quando i bianchi si spinsero nell’interno fino a Ayers Rock, le navi di galeotti avevano appena smesso di partire e la colonia penale diventava una colonia e basta, terra a disposizione. Che gli aborigeni conoscessero quel sasso da circa 60mila anni, lo avessero decorato di pitture sacre e adorato come il luogo di manifestazione del divino, parve poco interessante: il rame, quello sì. La sfortunata popolazione che viveva sopra i giacimenti, gli Ngadjuri, si estinse un anno dopo la miniera, chiusa nel 1877.

Quella che viveva intorno all’affascinante monolite, gli Ananga, si ridusse al lumicino ma riuscì a resistere. Resistette tanto che riuscì a riavere nominalmente il suo sasso. Nominalmente, perché lo stato australiano nel 1985 rese loro la terra ma procurando che fosse affittata al locale parco nazionale per i soliti 99 anni e che ai turisti fosse permesso di salire in vetta al monolite.

Fino al 1987, quando accaddero due cose: Bruce Chatwin pubblicò Le Vie dei Canti e Robert Hughes scrisse La riva fatale (tre anni dopo, il tremendo e truffaldino E venne chiamata Due Cuori di Marlo Morgan divenne una bandiera della new age) L’Occidente iniziò a leggere e, quando chiuse il libro, il mondo si era spostato un po’: oh guarda, c’è l’apartheid proprio a casa nostra, in quel pezzo di Occidente che galleggia nel Pacifico. Chi scrive ha rincorso le tracce di Chatwin nel deserto rosso qualche anno dopo l’uscita del libro, e a parte tamponare un cammello nei pressi di Uluru (già, l’Australia esporta cammelli in Arabia Saudita…) ha appreso con crescente stupore che i più consideravano lo scrittore inglese un presuntuoso saccente che non aveva capito un tubo dell’universo che aveva descritto in modo così magico. Mentre il critico d’arte di Time stabilì che era tempo che gli australiani sapessero di chi erano figli: macché avo irredentista irlandese, più facile che la trisnonna fosse una bagascia.

La vetta di Uluru si inserisce nel violento conflitto culturale tra l’elite bianca e ciò che resta degli aborigeni. Periodicamente l’assalto turistico fa il giro dei media: parte in Australia, arriva in Asia, infine – come quest’estate – anche nel resto del pianeta. Ma le critiche mondiali non hanno smosso l’orda dei turisti-sovranisti, i social fioccano di affermazioni del genere “l’ho scalato e lo rifarei”, della sacralità del luogo “I don’t give a shit”, “sono australiano e ho il diritto di nascita di scalare”.

L’australiano Marc Hendrickx ha fatto ricorso alla Commissione per i diritti umani affermando – seriamente – di essere discriminato come maschio caucasico, perché ai maschi nativi verrà consentito di salire la montagna in occasione di pochi e precisi riti religiosi. Ha perso.

Il conflitto ha un retroterra molto preciso, il complesso del conquistatore che l’onorevole Pauline Hanson e il suo partito, One Nation, rappresentano bene: “Vietare Ayers Rock – ha detto – è come chiudere Bondi Beach”. Che è la spiaggia delle spiagge, un chilometro di sabbia finissima, onde da surf e reti anti-squalo a cinque minuti dal centro di Sydney. L’attrazione vuol dire soldi e posti di lavoro, che sia il luogo dove il mondo è uscito dal Tempo del Sogno ed è entrato nella realtà frega solo agli Ananga. Anzi, impedire la scalata sottrae spazi e opportunità all’operosa comunità bianca per riservarli alla minoranza parassitaria del Primo Popolo. One Nation oggi vale circa il 5% ma in passato ha sfiorato il 10% e costretto il dominante National Party a buttarsi a destra per evitare emorragie elettorali.

Se oggi l’Australia ha leggi migratorie draconiane e veri lager per migranti sparsi nel Pacifico si deve anche al partito che Pauline Hanson fondò vent’anni fa dopo essere stata cacciata dal Partito liberale per dichiarazioni razziste. E’ una che fa sembrare Salvini un ragionevole moderato, professa crociate contro il muliculturalismo in generale e l’islam in particolare, ha connessioni esplicite con tutta una serie di leghe della destra nazionalista e connessioni assai più opache con milizie suprematiste che per ora si limitano a armarsi e sbraitare.

Ma quel ciclopico masso di arenaria conficcato nel cuore del desertico outback australiano, 350 metri fuori terra e sette chilometri sotto, così pieno di feldspati che la luce gli rimbalza addosso facendogli cambiare magicamente colore, per il Primo Popolo è tutt’altro che un’attrazione turistica. La principale battaglia dei movimenti aborigeni, oggi, è quella per essere citati nella costituzione australiana, che non fa il minimo cenno al popolo originale – il solo pezzo di patria in cui essi sono compresi è il National War Memorial a Canberra, dove volti aborigeni sono ritratti insieme a canguri, koala, rettili…. fauna locale, insomma.

La campagna per “la Voce” nella costituzione è partita con un grande meeting nel centro più sacro delle comunità aborigene: Uluru. E il manifesto politico si chiama Dichiarazione di Uluru.

Gli Ananga dell’interno sopravvissero a stento attaccati alla loro roccia fino agli anni Ottanta del Novecento, quando i movimenti per i diritti aborigeni riuscirono nel più grande dei loro successi, la restituzione delle terre ai proprietari tradizionali. Ayers Rock fu restituita il 26 ottobre del 1985 con l’accordo che fosse gestita come parco naturale e che la scalata fosse permessa.

Non è che chiunque scali la roccia sia un razzista. Il più delle volte ignora soltanto le condizioni del conflitto razziale in Australia. Una trentina di anni fa, il giornalista inglese John Pilger venne inviato in Sudafrica nei momenti caldi dell’apartheid. Anni dopo il Sudafrica, gli toccò l’Australia: “Qui è peggio”, constatò.

E resta peggio. I programmi di aiuto hanno finito per alimentare una burocrazia parassitaria bianca fatta di cariche politiche e contractors, mentre la morte per fame colpisce la cittadina aborigena nel cuore dell’outback che costituisce il luogo abitato continuativamente da più tempo al mondo – un villaggio che si chiama, con macabro ottimismo, Utopia.

Non conoscendo il sinistro segreto australiano, gli scalatori sottovalutano grossolanamente la mite richiesta di non scalare. Ma lentamente, una certa coscienza ha preso a sfiorare anche i turisti: negli anni Novanta il 74% dei visitatori saliva Ayers Rock, nel 2010 erano scesi al 38% (e il luogo aveva ripreso a chiamarsi Uluru), nel 2018 sono stati il 13% – su circa 400mila visitatori. Da qui la decisione di chiudere, quella che ha scatenato l’assalto alla vetta. L’ultimo, forse.

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