Cultura

Aurélia Zahedi, gli occhi pulsanti del deserto

Aurélia Zahedi, gli occhi pulsanti del desertoUna delle opere esposte alla mostra «La Rose de Jéricho», di Aurélia Zahedi ©Tanguy Beurdeley. La foto in evidenza è invece un ritratto di Aurélia Zahedi © Sylvain Lubac

GEOGRAFIE Una intervista all’artista francese in mostra a Parigi con «La Rose de Jéricho», visitabile fino al 30 di giugno. L’esposizione all’Institut de Cultures de l’Islam, tra sculture, poesie calligrafate, miniature e video. «Nel corso dei miei viaggi, per condurre le ricerche, sono arrivata ai beduini e al loro modo di abitare il mondo. Li ho ascoltati e ci ho vissuto»

Pubblicato 10 mesi faEdizione del 1 febbraio 2024

A Parigi, nella sede dell’Institut de Cultures de l’Islam, l’anno si apre con una luce chiara – quella emanata dalle opere dell’esposizione di Aurélia Zahedi, intitolata La Rose de Jéricho (visitabile fino al 30 giugno 2024), curata da Clelia Coussonnet.

Le opere di Aurélia Zahedi, disposte nell’hammam dell’ICI, ci raccontano la quète alla scoperta delle sue Rose di Gerico. «Per trovarle ci vogliono gli occhi del deserto», ci rivela l’artista e fin dalle prime sale ritroviamo questi occhi in quelli di un pastore beduino di nome Saqer S.H. Alkawazba, grazie a un ipnotico ritratto calligrafico. Le peregrinazioni alla ricerca delle radici del mito attraversano i territori della Cisgiordania, dove i racconti dei Beduini della città di Nabi Moussa si mescolano con quelli della Bibbia.

Vi ritroviamo la rosa di Gerico, pianta ritenuta immortale grazie alla sua qualità di rigenerarsi quando immersa nell’acqua. Costituita da un bulbo arricciato, i cui rami secchi avvolgono la corolla e il cui fusto rimane rasente il terreno, la rosa di Gerico si schiude con l’arrivo delle piogge – in un processo di nascita-morte-rinascita. L’artista ha scelto di consacrare queste fasi di passaggio tramite un’opera costituita da tre scrigni cerimoniali, in cui sono contenute tre rose di Gerico, delle tre specie esistenti in natura. Uno dei tre scrigni, realizzato nel 2018, si intitola «Patiens Quia Aeterna» e la struttura in vetro – attraverso un meccanismo di gocciolamento – prevede che la rosa all’interno possa essere bagnata, reidratata e quindi aprirsi di nuovo. Del 2018 è anche il debutto di una ricca serie di piccoli disegni a china, che raffigurano la rosa nelle varie fasi di passaggio; l’opera, intitolata «Risveglio della rosa di Gerico» è costituita da una serie di disegni non terminata, il cui continuum si pone cronologicamente entro i conflitti tra Israele e Palestina.

Il sole e le stelle ma anche il deserto e l’acqua si legano tutti nella rosa di Gerico che è figura della resistenza e della rinascita. Perché proprio questa specie?
Quando ero bambina, mio padre, un fioraio, mi raccontava storie sulle sue piante. In un angolo della sua serra aveva una Rosa di Gerico, dall’aspetto modesto, secca e raggomitolata su se stessa. Sebbene mi parlasse delle sue straordinarie proprietà – spinta dai venti nei deserti, capace di aprirsi a contatto con l’acqua e immortale – ammetteva di non sapere nulla di più sulle sue origini.
Dovevo scrivere una tesi per la mia laurea in arte e sognai che avrei raccontato a mio padre la storia della Rosa di Gerico. Poiché non esisteva un libro che raccogliesse tutte le ricerche su questa pianta, iniziai a studiare meticolosamente. Mi resi conto che esistevano tre diverse specie vegetali al mondo conosciute come «Rosa di Gerico», nessuna delle quali cresceva però nella città da cui prendeva il suo nome. Così, riecheggiando le storie raccontate nei libri, ho deciso di sognare la Rosa di Gerico, in Palestina, e sono partita per la prima volta per questa città mitica nel 2018.
Un incontro avrebbe cambiato il corso di questo primo viaggio e di tutta la mia ricerca, fino ad oggi: si tratta di quello con Saqer S.H. Alkawazba, un beduino del deserto a est di Gerusalemme. Mi ha aperto le porte del deserto e ha costruito al mio fianco il mito della Rosa di Gerico. In questa mia ricerca, diverse voci tratteggiano la sua storia, le sue tracce e le sue ombre in una terra devastata dall’uomo. La Rosa di Gerico contraddice la sua stessa terra, è nomade, senza frontiere, eppure oggi è d’obbligo constatare che il deserto ha dei muri.
Vedo questa Rosa come gli occhi e la pulsazione del deserto, essa è testimone del suo tempo e ci racconta la sua rotta attraverso la poesia.

Percorrendo le sue opere in mostra, ha parlato dell’importanza della scrittura – come elemento di ricerca ma anche di espressione del suo sentire. Vuole parlarci della compresenza dei segni grafici nella sua opera?
La scrittura svolge un ruolo essenziale nel mio rapporto con la Rosa. Prendo molti appunti durante i miei viaggi a Gerico e nei dintorni. La scrittura è frammentata. Posso scrivere di una mosca che annega nel latte di una capra appena munta, insieme al ritratto di un adolescente del villaggio che è appena stato colpito a un checkpoint. I testi conservano una memoria e accolgono la poesia. Io scrivo in francese e con le palestinesi e i palestinesi traduciamo in arabo.
Lo scambio sulle parole, sulle loro origini e sulle loro interpretazioni partecipa all’incontro con questo mondo. La mostra è ritmata da poesie in arabo calligrafate sui muri, una forma di scrittura che in questo deserto è minacciata, come possiamo vedere ad esempio in Palestina sui cartelli stradali dove l’arabo è stato sostituito dall’ebraico. La scrittura mi permette anche di dare vita all’oralità, una tradizione importante tra i beduini. Infatti, il film La rosa di Gerico, presente in mostra, è un lungo poema raccontato dalla voce di una donna palestinese che commemora questa lingua evocando la condanna all’esilio.

In una sala sono esposte tre opere del 2023 che costituiscono un’unica serie, dal titolo «La preghiera di Nesrine». Si tratta di tre dipinti su carta, ispirati alla tecnica delle miniature persiane della dinastia Safavide. Come ha imparato questa tecnica e quali sono i motivi di questo recupero?
Per unire scrittura e disegno, pratiche onnipresenti nel mondo immaginario della Rosa di Gerico, mi sono avvicinata alla miniatura persiana, che ho scoperto da bambina grazie a mio padre, che è iraniano. Mi è apparsa come un’evidenza durante un viaggio a Gerico nel 2022, e così al mio ritorno sono diventata allieva di un maestro miniaturista che da allora mi insegna la raffinata tecnica della miniatura persiana. In questa magnifica arte, una poesia o una preghiera illuminano un dipinto e viceversa. Le due cose sono legate e crescono insieme. La preghiera di Nesrine è stata ispirata da una donna beduina che veglia su di me durante le mie visite nel deserto. Ci siamo conosciute e un giorno è venuta a pregare accanto a me. L’ho disegnata, ho sognato in segreto la sua preghiera e l’ho scritta in calligrafia: «Potrebbe il cielo purificare la terra dalla nostra disumanità?». In questo modo, pittura e preghiera sono riunite grazie all’influenza della miniatura. Vedo questi dipinti come miraggi, tra sogno e realtà, frammenti di storie ed elementi di disegni nati in questo deserto palestinese – che si alimentano a vicenda.

L’opera che fa da manifesto all’esposizione è una scultura in vetro soffiato intitolata «Vaso lacrimatoio», in cui sono raccolte simbolicamente le lacrime dei beduini e che sottintendono una pletora di perdite. Vuole raccontarcele?
Nel corso dei miei viaggi, la Rosa mi conduce ai beduini e al loro modo di abitare il mondo. Vivendo con loro, mi rendo conto di quanto sia difficile per loro esistere in una terra che sfugge. Se non vengono cacciati, devono obbedire a delle leggi che sono incompatibili con il loro modo di vivere. Tra checkpoint, campi militari e insediamenti, il loro percorso è impossibile e non possono più nutrire i loro animali. Ultimi testimoni del deserto, i beduini stanno scomparendo, mentre le rose di Gerico li conservano nella loro memoria. Il vaso di lacrime è esposto al centro, fra tre grandi ritratti di beduini, compagni di viaggio delle Rose con il loro sguardo dignitoso. In questi dipinti, i loro corpi si fondono con il colore del deserto, immagine di una cultura in perdita che annuncia la scomparsa di un popolo.

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