Aurélia Georges, l’invenzione di un’identità per cambiare il mondo
Locarno 74 «La place d'une autre», in concorso: un universo di donne e le regole di classe nella Francia della Prima guerra mondiale
Locarno 74 «La place d'une autre», in concorso: un universo di donne e le regole di classe nella Francia della Prima guerra mondiale
Chi è Nélie Laborde, cameriera licenziata perché poco mansueta alle molestie del padrone, prostituta, senza tetto, che si arruola nella Croce Rossa come infermiera al fronte nella Prima guerra mondiale? Una giovane donna sola, di famiglia povera, figlia di una lavandaia, padre ignoto, che da piccola desiderava essere abbracciata dalla mamma, che pure l’amava, che ha avuto la possibilità – per lei non prevista in quell’ordine sociale – di imparare a leggere grazie alla famiglia adottiva, e che soprattutto ha un testa e una sensibilità che le permettono di relazionarsi empaticamente col mondo. E così quando il caso la porta nella casa di una ricca signora dell’alta borghesia di Nancy a lavorare come lettrice, Nélie che nel frattempo è diventata Rose Juillet, saprà conquistarle il cuore con il suo sguardo sulla realtà e con l’esperienza che riempie le parole dei libri di vissuto, di lacrime, di paura, di forza, del sentimento di una dimensione letteraria in corrispondenza con la vita.
Per La place d’une autre – nel concorso internazionale di Locarno – Aurèlia Georges ha lavorato sul romanzo di Wilkie Collins The New Magdalen trasportandolo dalla società vittoriana alla Francia negli anni della Grande guerra, il primo trauma del Novecento che pure non riuscì a scalzare i rigidi compartimenti di classe – un po’ come sul ponte del Titanic. E Georges che è regista di acutezza speciale a rendere i passaggi dell’umano nel tempo e nel desiderio, e con essi gli inciampi dell’esistenza tra le maglie di ciò che la circonda sin dal primo film, L’homme qui marche (2007) – il protagonista era uno scrittore che piano piano precipita sempre più in miseria e in solitudine – a partire da qui costruisce una traiettoria precisa e emozionante sui rapporti tra gli individui e sui pregiudizi che li governano, sulla libertà delle scelte e su come riusciamo a vedere gli altri – o a rappresentarceli.
«Mi avreste voluto con voi anche se ero la figlia di una lavandaia?» chiede Nélie ormai Rose alla signora, la quale le risponde ridendo che ha molta fantasia e per questo che legge così bene.
Ma non è stato inganno premeditato quello della ragazza: al fronte dove era infermiera piena di cura per ciascuno, coraggiosa, attenta a non farsi sfuggire nessun ferito bisognoso di aiuto, Nèlie aveva soccorso un’altra donna, una viaggiatrice che si era perduta. La ragazza era svizzera, orfana di famiglia ricca mandata dal padre deceduto in Francia presso una sua vecchia amica che aveva bisogno di una lettrice. Mentre le due parlavano l’ospedale era stato attaccato dai tedeschi, la ragazza era stata ferita a morte, per Nélie era bastato un istante: diventare lei, diventare Rose Juillet che aveva un posto dove andare, un rifugio sicuro mentre a lei l’aspettava il nulla o forse di nuovo la strada o il foyer per le donne sole.
E questa «linea» femminile, insieme appunto a quella di classe – peraltro nell’epoca e non solo assai intrecciate – sono i due temi sui quali Georges costruisce la propria narrazione in una sceneggiatura – scritta insieme a Maude Ameline anche interprete della «vera» Rose Juillet – che non è mai paradigmatica ma sa affrontare i rischi della storia con delicatezza lasciando libere le emozioni dei personaggi che portano in sé la dimensione di ogni conflitto. Lei rimane accanto a ciascuno di loro, che quella società «condanna» al proprio ruolo – al di là persino di sé stessi – che imprigiona in una distanza siderale nella quale senza «finzione» non potrebbero mai neppure parlarsi.
Avrebbe mai infatti la signora de Lengwil – a cui dà vita la sublime Sabine Azema – mai incontrato l’infermiera e prostituta Nélie – Lyna Khoudri, scoperta grazie a Non conosci Papicha di Mounia Maddour, vista a Cannes in The French Dispatch di Wes Anderson, che si sta affermando come una delle più talntuose attrici delle nuove generazioni? La risposta è già scritta allo stesso modo che se la «vera» Rose non fosse stata creduta povera e pazza, un’impostora insomma, nessuno l’avrebbe arrestata o messa in manicomio senza ascoltarla.
E quei ricchi, compreso il nipote pastore protestante della signora, non possono neppure immaginare l’eventualità di essersi sbagliati: vedono ciò che vogliono, ma forse non è più orgoglio, è diventato amore, perché la loro Rose chiunque fosse era stata una presenza meravigliosa, amata da tutti, dalla servitù che lei capiva, anche quella più intransigente, e dai «padroni» che non la sentivano «diversa» da loro come sarebbe stato conoscendo la sua identità; anzi la sua dolcezza, i suoi racconti di un «altrove», la sua duttilità li aveva fatto scoprire cose a loro ignote, mentre quella menzogna non si farà mai tradimento.
Georges conduce lo specchiarsi di essere/apparire nella suspense, che è ancora una volta quella dell’interiorità, degli affetti, un incastro complesso in cui le «regole» sono state scalzate: come ritrovarsi? Come andare avanti, come non farsi sfuggire ciò che si ama?
Disseminando molte e diverse film la regista trasforma l’identità in reciprocità, quasi un romanzo di formazione per le due protagoniste che scoprono piano piano – grazie al loro incontro – un modo nuovo per essere se stesse, che mette da parte le convenzioni e risponde ai loro sentimenti, in cui si afferma il diritto di una presa di parola finalmente libera.
Radicalmente femminile è l’universo del nuovo film di Bertrand Mandico, After Blue, una sci-fi altamente postmoderna in cui il regista francese – molto amato dalla cinefilia giovane – si proietta in un futuro non precisato e su un pianeta selvaggio dove vivono comunità di donne che hanno lasciato la Terra dopo una qualche catastrofe. Gli uomini sono stati esclusi, l’ordine segue delle norme molto rigide, chi trasgredisce viene ferocemente punito. Ogni gruppo è separato, la «matrice» identitaria è categorica, le donne però sembrano odiarsi invece che essere unite da complicità. Roxy, la protagonista, è un’adolescente solitaria, le altre la chiamano Toxic, è nata dal seme della terra, la madre, Zora, è la parrucchiera del villaggio, depila le donne dai peli folti che crescono sui loro corpi. Poi un giorno Roxy libera una donna sotterrata fino alla testa, si fa chiamare Kate Bush (!), è un’assassina che la seduce, le entra dentro, le libera un piacere selvaggio e le promette di esaudire i suoi desideri più oscuri… Le tre ragazzine che la bullizzavano vengono uccise, Zora e Roxy devono andare a caccia di Kate Bush in luoghi ignoti del loro pianeta.
Ci saranno molte altre figure a incrociare i loro passi, molti incontri e scoperte di una storia narrata come un lungo flashback che mischia liberamente spunti di immaginari e suggestioni di rivolta in questo lungo on the road che è anche un po’ viaggio di conoscenza di sé.Ma in fondo in quel pianeta pieno di succhi, di umori, di liquidi spermatici, che si vuole gender fluid, sembra che per tutte coloro che lo abitano – anche per chi ha il terzo occhio sul sesso – ci sia il grande vuoto del pene, la cui sagoma appare persino sui rami degli alberi, e seduce pure se in forma di automa con il fascino dell’ignoto. Ma in fondo anche questo non è segno del limite «identitario»?
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