Aura Ghezzi: «Sul palcoscenico siamo indisciplinate e libere»
Intervista Conversazione con l’attrice romana, cofondatrice della neonata compagnia teatrale Tostacarusa
Intervista Conversazione con l’attrice romana, cofondatrice della neonata compagnia teatrale Tostacarusa
«Essere indisciplinate permette di non soccombere nonostante gli imperativi che riceviamo, significa coltivare un luogo di gioia in cui la propria differenza si possa esprimere». Così Aura Ghezzi parla dell’ultimo spettacolo interpretato, Tu eri turbolenta – Quirk of fate. Un lavoro ispirato da tante figure femminili, da Goliarda Sapienza a Jane Campion e Tina Modotti, passando per Scarlett O’hara, frutto dell’incontro tra l’attrice romana e la regista, drammaturga e interprete Tolja Djokovic a cui si è poi aggiunta l’attrice Martina Tinnirello. Dal progetto è nata la compagnia Tostacarusa perché «in questo mondo difficile, in cui non sempre ci piacciono i lavori che svolgiamo, la compagnia rappresenta un luogo sicuro in cui esprimersi, un luogo “salvo” nonostante si trovi nel mondo». L’esperienza di Aura Ghezzi, nata nel 1988, racconta il complesso scenario che affrontano tante artiste e artisti nel muovere i primi passi nel mondo dello spettacolo, tra produzioni indipendenti e non, con alle spalle però il periodo della pandemia che ha da un lato acuito le difficoltà ma dall’altro creato un movimento che permette di affrontarle con un’ottica collettiva, politica.
Quali ostacoli stai incontrando sul tuo percorso in quanto giovane attrice che da alcuni anni si è addentrata nell’ambito professionale?
Sicuramente non è un lavoro facile, come tanti altri in Italia attualmente, però nello specifico nel settore dello spettacolo ci sono meno soldi e meno possibilità di fare pratica rispetto ad alcuni decenni fa. Purtroppo non è una professione per tutti, ci vuole forza d’animo e una rete d’aiuto che possa dare un supporto nei periodi di inattività. Quindi c’è una questione di classismo, chi non si trova in determinate condizioni è più facile che abbandoni prima del tempo. Una volta realizzato uno spettacolo c’è poi la grande difficoltà di trovare occasioni per mostrarlo.
Ci sono però anche delle realtà ricettive, per «Tu eri turbolenta» ad esempio avete avuto modo di ottenere alcune residenze artistiche.
Sì certo, all’inizio soprattutto ci ha molto aiutato l’Udi – Unione donne Italia, dandoci la possibilità di provare nei loro spazi. Per i primi passi di un progetto non serve molto, giusto una stanza che non sia troppo fredda! Ravenna è stata poi una città molto accogliente, abbiamo svolto diverse residenze ad Ardis grazie al supporto di Fanny&Alexander, E production, Ravenna Teatro. Nel 2020 abbiamo vinto il bando Re.Te Ospitale (Compagnia Teatrale Petra) a Satriano di Lucania (PZ), una bellissima esperienza di residenza artistica a contatto con gli abitanti.
Tra «Non so nemmeno se sono felice», spettacolo ispirato alla vita di Irène Némirovsky che hai interpretato due anni fa e «Tu eri turbolenta» c’è un filo rosso ovvero l’esplorazione dell’universo femminile. È un caso o per te il teatro può essere un mezzo privilegiato per indagare questo tema?
Sicuramente entrambi sono progetti dal carattere fortemente femminile, forse per caso contemporaneamente ho lavorato anche in Le lacrime amare di Petra von Kant con la regia di Maurizio Lupinelli, dove c’era comunque questo carattere, eravamo sei attrici! Potrebbe essere una mia fase artistica, credo di trovarmi meglio soprattutto quando si tratta di ideare e produrre un progetto da zero. C’è un’esigenza di autodeterminazione, anche nel teatro, un mondo tradizionalmente molto maschile. Credo che interrogarsi su questi temi come fa ad esempio l’associazione Amlet_a sia giusto, i personaggi femminili poi non sono molti e c’è il rischio di una tipizzazione. Penso però che nei grandi testi tutto questo venga superato nella profondità della scrittura.
Approcciando il tema dell’autodeterminazione sul piano artistico, in «Tu eri turbolenta» è interessante la scelta di una regia interna che voi interpreti controllate in scena durante lo spettacolo.
È una scelta di Tolja che abbiamo poi elaborato insieme. Ci siamo interrogate su cosa significhi raccontare una storia prendendosene le responsabilità: in scena siamo molto scoperte e senza un punto di fuga, un’estremizzazione di alcune condizioni che appartengono al teatro in generale. Diventa anche un po’ un gioco di bambine che interpretando una storia prendono su di sé tutti i ruoli possibili e tutte le operazioni necessarie.
Nella tua esperienza c’è un legame tra impegno politico e teatro?
Sì, su vari piani: da una parte la compagnia può essere un terreno in cui portare anche delle questioni politiche-artistiche, è un luogo in cui non ho il problema di essere scissa; dall’altra c’è il movimento dei lavoratori dello spettacolo, che con la pandemia si è rafforzato per chiedere una riforma del settore. Penso sia importante per noi che apparteniamo a questo mondo partecipare per rivoluzionarlo, conquistare diritti per tutti e tutte e quindi rendere anche la cultura più accessibile e meno di classe. Con la riapertura si è un po’ affievolita la spinta, perché la ripartenza è stata improvvisa e da un lato ha lasciato a casa tante persone mentre dall’altro ha immerso altre in ritmi lavorativi forsennati. Si diceva di non voler tornare al «prima» ma di fatto ora è peggio, le possibilità sono diminuite e la mini riforma di Franceschini, ancora in fieri, ha dato pochissimo rispetto a ciò che veniva richiesto, soprattutto rispetto al reddito di continuità. C’è quindi un po’ di delusione ma rispetto a prima si sono formati e sono ancora attivi diversi gruppi di lavoratori e lavoratrici.
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