È in cartellone il 7 luglio al Pergine Festival, al teatro comunale Pergine, Valsugana (Trento) Jitney di August Wilson per la regia di Renzo Carbonera che ha esordito il 12 maggio al Teatro Astra di Vicenza. È la prima volta che un testo del grande drammaturgo viene tradotto in italiano e messo in scena. Con molta probabilità, è anche la prima che uno spettacolo di prosa corale viene rappresentato da un cast solo di interpreti afrodiscendenti italiani.

Vincitore due volte del Premio Pulitzer, nel 1987 per Fences e nel 1990 per The Piano Lesson, August Wilson (1945-2005) ci ha lasciato l’eredità monumentale dell’American Century Cycle, dieci testi che danno corpo all’esperienza degli afroamericani nel Novecento, toccando temi come lo sfruttamento, il razzismo, l’identità. Nel memorabile discorso The Ground on Which I Stand, mentre rivendicava il diritto di aspirare a un’universalità classica ispirandosi anche ai capisaldi del Teatro Occidentale, si scagliava contro una scena teatrale americana colpevole di cancellare la storia del popolo nero. Nonostante i suoi allestimenti abbiano consentito a interpreti come Angela Bassett, Viola Davis, Samuel L. Jackson e Denzel Washington di affermarsi, in Italia le sue opere non sono mai arrivate e Wilson è noto ai più come autore di Fences, il film diretto da Washington nel 2016. Nel 2020 è stato realizzato anche un adattamento per Netflix da Ma Rainey’s Black Bottom, con Davis e Chadwick Boseman al suo ultimo ruolo.

Jitney, ambientato nel 1977, si svolge nell’arco di due giorni, all’interno di una stazione di jitney appunto, taxi clandestini destinati a un’utenza working class nera che vi si appoggia in assenza di mezzi pubblici e auto proprie. La stazione, diretta dall’esperto Becker, si trova in un quartiere di Pittsburg al centro di massicci lavori di riassetto urbanistico e l’uomo deve nello stesso giorno decidere come reagire all’ingiunzione di sgomberare il locale e come accogliere Booster, dopo vent’anni di detenzione in cui ha evitato di andarlo a trovare. Intorno a Becker una piccola comunità di autisti e persone del quartiere per cui la stazione è diventata un punto di riferimento, alle prese con una vita di ordinaria violenza, dov’è possibile sperare in un futuro più degno, non dimenticando però che il «sogno americano» è roba da bianchi.

Far arrivare Wilson al pubblico italiano non è stato semplice. La traduzione di Angela Soldà, supervisionata dall’Università di Padova, scommette sulla possibilità di inventare un italiano colloquiale ma non connotato localmente, a partire dal ricco African American Vernacular Language dell’autore di Pittsburg. L’allestimento si inserisce all’interno di un ambizioso e articolato Wilson Project, realizzato dal centro La Piccionaia di Vicenza, col sostegno del Consolato Generale USA a Milano e in collaborazione con altri partner.

Dietro il progetto c’è la forte volontà di Carbonera, regista friulano con alle spalle due lungometraggi, Resina (2018) e Takeaway (2021), molto apprezzati dalla critica. In questa sua prima regia teatrale, Carbonera si è preso una notevole dose di rischio. Anzitutto per il cast, scegliendo un pacchetto di interpreti che appartengono grosso modo alla stessa generazione (dai 25 anni di Alessandra Arcangeli ai 38 di Germano Gentile) mentre nella pièce di Wilson ci sono almeno due personaggi tra i 50 e i 60 e due tra i 40 e i 50. La seconda scelta di rottura è affidare a ciascuno dei quattro attori un doppio ruolo, obbligandoli a un tour de force assai arduo, fatto di entrate/uscite, cambi di accessori e ricalibratura della performance, con Arcangeli a sdoppiarsi tra la giovane Rena e una «radio umana» che reinterpreta a bordo scena alcuni classici soul, da Nina Simone a Marvin Gaye.
Non iscritta nel realismo di base wilsoniano, la messinscena di Carbonera scommette su un mélange di astrazione, minimalismo e antinaturalismo, con scenografia e costumi essenziali. La scena è dominata da due maxischermi in verticale che rimandano durante l’azione le «regole di Becker» e i prezzi per i taxi nei vari quartieri di Pittsburg e nei cambi di quadro immagini perlopiù in bianco e nero di vita quotidiana. La stazione di jitney viene resa con l’ausilio di pochi arredi e oggetti di scena. Anche i costumi rispettano questo procedimento di sottrazione: semplici, in nero, con la variante di alcuni accessori in brillante giallo primario.

Il risultato complessivo non delude le aspettative, con la freddezza del décor compensata dalla tesa energia performativa degli interpreti. Ciascuno si lascia apprezzare per una chiave: Gentile per una gestione solida, arricchita da graffianti manierismi vocali, Aaron Tewelde per la dizione sostenuta ma sempre in controllo, Yonas Aregai per l’attenta calibratura di tempi e registri, Maurizio Bousso per la leggerezza commedica con cui si fa perdonare qualche sovraccarico nel linguaggio del corpo, Arcangeli (Hallyx nel giro musicale) per l’intensità espressiva da interprete e il timbro caldo e avvolgente da soul singer.

C’è da augurare a questa produzione di trovare una visibilità importante all’interno di una scena teatrale italiana nel suo complesso assai poco inclusiva. Lo spettacolo non fa che confermare l’esistenza di un parco consistente di interpreti afrodiscendenti, formatisi in scuole prestigiose come l’Accademia Silvio d’Amico di Roma (Arcangeli e Tewelde), il Teatro di Roma (Aregay), il Teatro Stabile di Genova (Bousso), la Paolo Grassi di Milano (Esther Elisha, Rosanna Sparapano, Marouane Zotti, Alberto Boubakar Malanchino), il Piccolo Teatro di Milano (Martina Sammarco) e che hanno già dato prova significativa del loro valore. Accanto a loro altre presenze di spessore come Nadia Kibout, Ashai Lombardo Arop, Balkissa Maiga, Alfie Nze. Dietro di loro ma ancora sulla breccia, veterani come Antonio Campobasso, Salvatore Marino, Jonis Bascir, Rufin Doh Zeyenouin, Felicité Mbezele. Alcune, come le bravissime Caterina Deregibus e Gamey Guilavogui Malatesta, sono state ingiustamente dimenticate. L’Italia plurale del 2023 ha talenti da vendere, a mancare sono ruoli e coraggio per sostenere un movimento che avanza, nonostante tutto. Per parafrasare quanto detto da Viola Davis sulle donne nere nel suo indimenticabile discorso agli Emmy Awards del 2015, «l’unica cosa che separa gli attori neri da tutti gli altri è l’opportunità».