Terzo capitolo della «trilogia narrativa slegata» di August Strindberg – così la indica Franco Perrelli, curatore e traduttore, tra i massimi esperti dell’autore svedese – Il capro espiatorio (Carbonio, pp. 162, € 15,00) fa parte, insieme a Solo e a La festa del coronamento di quella vena narrativa alla quale Strindberg vedeva applicata «la formula del romanzo di Balzac»: una rappresentazione sociale, amara, che trova tuttavia fra le pagine di questo terzo romanzo toni meno violenti, mentre persiste l’ironia dell’autore verso certi comportamenti e modi di pensare dei suoi connazionali.

Uscito nel 1907, lo stesso anno in cui si inaugurava a Stoccolma il Teatro Intimo in cui Strindberg ebbe l’opportunità di mettere in scena le sue opere vecchie e nuove, Il capro era introvabile nella prima edizione uscita in italiano, insieme a Gli abitanti di Hemsö, a cura di Daniela Marcheschi e Karin Helbom (Biblioteca di Repubblica, 2004).

Al centro della vicenda c’è Libotz, un avvocato, timido e integerrimo che, dalla città dove abitava, si sposta per via di un legame familiare in una cittadina chiusa in sé e ostile ai nuovi arrivati. Dal primo momento, quando mette piede nel ristorante di Askanius, deus ex machina della comunità, che detesta i legali per via di una infelice esperienza precedente, Libotz verrà maltrattato. Roboante, strepitoso, sarà destinato a disavventure di ogni tipo. Del resto, la legge è, in questa opera strindberghiana, come sempre, grottesca, paradossale, pronta a riconoscere il diritto del più forte.

La critica scandinava evocò spesso, per accostarlo al protagonista del Capro, l’idiota dostoevskijano (Perrelli cita anche Rouault e i suoi dolenti clown), notando come ogni proposito di bontà si trasformi in lui in occasione di disastri e disgrazie. Tutti lo tormentano: il padre, noto delinquente che ha per tutta la vita smerciato cibi e bevande avariate, pesa su di lui dal momento in cui si è trasferito in una casa di riposo, dove si rende odioso a tutti. Il fratello gli impone con il ricatto di sottoscrivere una onerosa garanzia economica. Non riesce a trovare l’amore con la cameriera Karin, e se ne distacca vergognandosi di essere troppo noioso; quindi si lancia in confessioni incaute al commissario Tjärne, che le usa per avviare una causa contro un dipendente, disonesto senz’altro, ma protetto dalla collettività.

Niente viene risparmiato a Libotz, troppo onesto per farsi valere: caricature sulla stampa locale, parole a mezza bocca, disegnando una vera e propria via crucis, che si conclude tuttavia con una nota positiva; dall’inizio alla fine del libro l’immagine della vita in terra è però quella di un inferno, mutuato dalle visioni del connazionale Emmanuel Swedenborg.

Al momento di abbandonare con l’animo sereno la sua inospitale dimora verso nuove mete, un vicino rivela a Libotz il suo destino, peraltro da sempre presagito: il suo è stato il ruolo del capro espiatorio per una collettività furibonda, microcosmo di un mondo che sempre necessita di un nemico da opprimere, e se possibile eliminare.