Audrey Magee, vicinato molesto, ospiti sussiegosi: hanno tutti torto
Scrittrici irlandesi Un pittore inglese e un linguista francese, stranieri che portano nella biografia e nella lingua i segni dell’imperialismo, sbarcano su una isola remota, a turbarne la quiete: «La colonia», Bollati Boringhieri
Scrittrici irlandesi Un pittore inglese e un linguista francese, stranieri che portano nella biografia e nella lingua i segni dell’imperialismo, sbarcano su una isola remota, a turbarne la quiete: «La colonia», Bollati Boringhieri
Al suo esordio narrativo, nel 2014, Audrey Magee si propose di analizzare in un trittico romanzesco l’interazione tra grandi sistemi politici e gente comune: un progetto ambizioso, il cui intento era scandagliare il riflesso di ideologie e politiche dominanti sulle esistenze individuali. Nel primo dei tre lavori previsti, Quando tutto sarà finito, Magee indagò l’impatto del nazismo sulla popolazione tedesca, domandandosi, attraverso l’atipica storia d’amore tra due giovani sposati per procura, che cosa significasse vivere in Germania durante la Seconda guerra mondiale, e quanto la quotidiana lotta per la sopravvivenza fosse determinata dall’ideologia al potere.
A distanza di otto anni, la scrittrice irlandese ha pubblicato il secondo volume della trilogia, La colonia (traduzione di Chiara Baffa, appena uscito da Bollati Boringhieri, pp. 312, € 18,00) quasi una parabola sulla condizione del colonizzato e su quella dei colonizzatori, e sulle ricadute che queste diverse forme di vita hanno sul linguaggio, sulle comunicazioni interpersonali, sull’arte e le occorrenze della vita quotidiana. L’ambientazione è una fittizia nonché remota isola irlandese di soli novantadue abitanti, in un tempo gravido di eventi tragici – l’estate del 1979, in cui il conflitto tra protestanti e cattolici culminò in un’escalation di attentati, con l’uccisione di Lord Mountbatten, cugino della regina. Tra scarsi accadimenti punteggiati da notazioni sardoniche, secchi dialoghi e monologhi interiori spesso investiti dalla malinconia, la vicenda ruota intorno allo sconvolgimento provocato sull’isola dalla presenza di due stranieri: un pittore inglese, Mr Lloyd, e un linguista francese, Jean-Pierre Masson, che tutti chiamano JP. Personificazioni di due ben precisi contesti coloniali, Lloyd e JP giungono all’isola con scopi diversi. Il primo si immagina un novello Gauguin, dunque cerca nel paesaggio e nei nativi occasioni di pittura che possano rivitalizzare tanto la sua carriera in declino quanto il suo matrimonio con una gallerista londinese per la quale i suoi quadri sono niente più che didascaliche fotografie del reale. A differenza di Lloyd, JP non è nuovo nell’isola: da cinque anni vi passa tutte le estati, per studiare il lento declino della lingua locale, nel tentativo di impedirne l’estinzione.
Ospiti paganti della stessa famiglia, entrambi alloggiati nei cottage appartenuti a isolani emigrati in America, i due manifestano fin dal primo momento una reciproca, franca antipatia: l’arrogante Lloyd non sopporta l’elegante e ambizioso francese, che lo esclude dalla conversazione esigendo che a tavola si parli solo l’irlandese; dal canto suo, JP disprezza l’inglese, e paventa una corruzione linguistica che accelererebbe la scomparsa dell’antico gaelico, ormai parlato propriamente solo da una vecchia novantaduenne, con cui il linguista ha conversazioni quotidiane, registrate e riascoltate al cottage, con l’effetto di disturbare la quiete di Lloyd.
Entrambi gli intrusi propongono una attitudine «colonialista»: Lloyd sfrutta l’isola e i suoi abitanti per nutrire la sua pittura e, per di più, raffigurandoli al modo di Gauguin e talvolta persino di Rembrandt, tradisce la loro unicità; JP, figlio di padre francese e di madre algerina, ha vissuto nell’ambiente domestico una sorta di replica del conflitto coloniale, e dunque preservare il gaelico è, per lui, sia una compensazione al rifiuto infantile della lingua materna, sia un mezzo per accrescere il proprio prestigio accademico, affrancandosi definitivamente dalla condizione familiare originaria.
Lingua e arte sono, dunque, gli ambiti nei quali Magee impianta la sua visione delle dinamiche colonialiste, mentre riflette sull’imposizione della lingua inglese in Irlanda ad opera di Elisabetta I, che portò a relegare l’uso dell’irlandese ai poveri e agli incolti. Problemi, questi, che si riverberano nella struttura del romanzo, dove i dialoghi, distesi su intere pagine, suonano bruschi e laconici, e nella narrazione, spesso frantumata in frasi di una o due parole, irrompono i monologhi interiori dei protagonisti. Quel che interessava l’autrice è, per sua stessa ammissione, restituire da una parte il flusso del mare e l’instabilità dell’isola lambita dalle onde, dall’altra riportare la scissione mentale del colonizzato, alla ricerca di una propria fisionomia in un mondo lacerato dalla violenza.
Scarni bollettini sulla guerra civile in atto, tanto sul fronte protestante quanto su quello cattolico, spezzano il racconto, e alla narrazione che procede al passato si intervallano notizie di agenzia redatte al presente che, testimoniando l’attualità del conflitto rendono testuale l’eredità della violenza. Inizialmente ignorati dagli isolani, poco alla volta i comunicati sui troubles (eufemismo inglese che la dice lunga sul rapporto tra colonialismo e linguaggio) diventano oggetto di discussione. Fino al giorno in cui, con l’inizio dell’autunno, la vicenda torna al punto di partenza: il pittore e il linguista se ne vanno, ognuno con un bottino di immagini e parole, mentre sull’isola cala il silenzio, insieme all’amarezza per i sogni infranti e alla rabbia per le promesse mancate.
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