Auden, non solo enigma interiore
Un volume di «Poesie scelte» di W.H. Auden, tradotte da M. Bocchiola e O. Fatica per Adelphi Precisione lirica e arguzia: di espressione raffinata, non è mai stato poeta per poeti
Un volume di «Poesie scelte» di W.H. Auden, tradotte da M. Bocchiola e O. Fatica per Adelphi Precisione lirica e arguzia: di espressione raffinata, non è mai stato poeta per poeti
W. H. Auden è sempre stato istintivamente un poeta che ha amato colloquiare con altri poeti, suoi contemporanei e del passato, e non proprio con le strategie intertestuali del ‘frammento’, promosse dal Modernismo e spesso fraintese, bensì con allusioni liberate nel linguaggio quotidiano, e soprattutto, a un altro livello, con un confronto esteso e ragionato con la parola di chi pratica il suo stesso mestiere (Gli irati flutti, Il mare e lo specchio, Lo scudo di Perseo, La mano del tintore…). Al contempo, benché spesso contestato in vita su più piani, incluso quello estetico (celebre il monito di Harold Bloom, proclamato in vezzi anticheggianti (biblici): «close thy Auden, open thy Wallace Stevens»!), è stato anche forse tra i poeti più commentati e omaggiati dai suoi colleghi, e non nel semplice ringraziamento per l’influsso autorevole che egli esercitò in particolare sulla generazione americana che emergeva negli anni cinquanta (Sylvia Plath, James Merrill, John Berryman, Anthony Hecht). Per più mirati (e ammirati) riconoscimenti, bastino i nomi di Stephen Spender, Iosif Brodskij, John Ashbery, Seamus Heaney, poeti tra loro molto diversi. È legittimo dunque interrogarsi sulle ragioni dei tributi e delle conversazioni a più voci, di cui Auden, a partire da un certo periodo della sua carriera, si fa o viene fatto, punto di riferimento, persino da un anti-Auden come Allen Ginsberg, il quale lo inseguì a Ischia, in un buon ristorante, davanti a una, o più bottiglie di buon vino, e ne lasciò testimonianza irriverente e divertente in Remembering Auden (1974).
Ci si potrà domandare allora: è il più corale testimone ‘inquieto’ della metà del secolo scorso (l’Età dell’ansia)? Sì. E ci si potrà chiedere: è un poeta per poeti? No, anzi egli ha sempre voluto comunicare con un pubblico allargato; è vero, con lingua raffinatissima e talora troppo alta, ma mai tramite codici da conventicole. Forse una ragione della sua centralità novecentesca sta inscritta in un saggio poco noto (perché inedito) di Ashbery («Recent Tendencies in Poetry»), in cui, allora giovanissimo (1945), il maggiore poeta – l’unico in vita oggi – di quella che, negli anni sessanta, sarebbe stata chiamata Scuola di New York (il più spettacolare protagonista fu Frank O’Hara, dalla vita irruente e breve), parlava della poesia di Auden come di una poesia di «responsabilità sociale e enigma interiore». È una delle tante risposte possibili, una risposta molto buona, che fa da contrappeso e integrazione all’esame del wit (arguzia, téchne), la precisione lirica (soprattutto ‘sonora’), della sua arte, condotta, con altro, da Heaney. Resta da ispezionare l’«enigma interiore», se mai si potesse. «Facile è fare la domanda difficile», concordiamo con Auden, più difficile è la risposta che, nel nostro caso, non ha poi grande importanza: l’enigma è legittimo, trattandosi di una mente eccelsa.
La ricezione italiana
Nonostante il suo italiano elementare e le numerose puntate a Ischia e altrove, in Italia invece Auden ha seminato poco. Tuttavia, ha goduto abbastanza presto di traduzioni, considerando i nostri tempi di allora. Se si eccettuano l’ottimo Poesie di W. H. Auden (1952) di Carlo Izzo (al quale Auden dedicherà «Addio al Mezzogiorno»), e le presenze in antologie sull’onda della scoperta (Roberto Sanesi e altri) –, le prime versioni di intere raccolte (Aurora Ciliberti) risultano un po’ zoppicanti per forza di cose, o del destino, tant’è che ora, con strade più aperte, si va via via recuperando il perduto. È in questo senso (ma, naturalmente, non solo in quel senso) che mi pare diretto il volume Poesie scelte, curato e introdotto da Edward Mendelson, docente alla Columbia University di New York e esecutore letterario di Auden (traduzione di Massimo Bocchiola e Ottavio Fatica, con un saggio di Iosif Brodskij, Adelphi «La nave di Argo», pp. 890, € 70,00). L’edizione ripresa è quella dei Selected Poems del 1979, ristampata nel 2007, in occasione del centenario della nascita.
Si può dire che in Poesie scelte, liriche presentate in un continuum, senza intitolazioni disgiuntive – ovvero, in ordine cronologico e non suddivise per raccolte, quasi il libro fosse una nuova creazione/narrazione – ci sia un po’ di tutto del migliore Auden, un ritratto organico in divenire del suo fare poetico, suo specifico e inconfondibile, pur nella diversificazione delle multiformi espressioni in cui egli lo volge, ma con nel ‘basso’ di fondo la voce persistente di un’anima appassionata, tormentata, meditativa, sfrontata, spesso drammaticamente sola, che parla dei suoi tempi storici e delle notti intimistiche, aggiungendo da dotto, qual era, irruzioni su idiosincratici spunti dai classici antichi.
Si seleziona da raccolte famose: Viaggio in una guerra (1939); Un altro tempo (’40); Per il tempo presente (’44), dal quale si estrae l’intero «Il mare e lo specchio», poesia sommata a prosa, rivolto a un commento alla Tempesta di Shakespeare; L’età dell’ansia: egloga barocca (’47), il libro che lo etichetta come voce del suo tempo («tempo» è il suo termine più ossessivo e dialettico), e che ebbe una buona prima traduzione italiana a cura di Lina Dessì e Antonio Rinaldi (’58); Lo scudo di Achille (’55), un’ekphrasis del famoso scudo, un’occasione per ricordare la sopravvivenza e la cura, l’importanza, dell’arte (nell’antichità) anche nelle urgenze dei tempi di guerra; Omaggio a Clio (’60), la Musa del Tempo, un titolo che Broskij ricalcherà nel suo Profilo di Clio; infine, il postumo Grazie nebbia! (’74), il commiato (l’envoi), dedicato al ritorno a casa, alla nebbia, a Oxford, e alla sua (nonostante l’espatrio adottivo in America del ’39) Inghilterra, come quasi a un ‘grembo’ materno (si vedano le varie «Ninnananna»), che gli genera un rinnovato Amor Loci persino per le miniere di piombo attorno a Rookhope, nella contea di Durham: «Ma c’è molto per me: una visione / non già (come credevo / forse a dodici anni) dell’Eden, / tanto meno di una Nuova / Gerusalemme ma, per uno / persuaso di morire, / più attraente e credibile / di quelle fantasie». La morte, invece, lo colse ancora fuori, da fuggitivo, solo, in un albergo nei pressi di Vienna, nel 1973.
Autista in Spagna
Poeta impegnato fu Auden, anche quando decise di disimpegnarsi dai fallimenti della Storia: dopo l’avventurosa scelta di posizioni marxiste, la presenza come autista di ambulanze nella Spagna contro Franco, il viaggio rocambolesco da reporter nella Cina in guerra con il Giappone, lo sdegno per Danzica e l’irruzione tedesca. Tutto inutile, tutto vano, perché, ne consegue, «la poesia non fa accadere niente» («In memoria di W. B. Yeats»), nulla, se non lo strazio personale (e comunitario) e un gesto estetico, nel caso di Auden, vincente. Mai, tuttavia, c’è il cedimento alla pietrificazione davanti alla Gorgone che insegue fatti e misfatti degli uomini senza scampo. Anzi, il poeta assiste allo spettacolo del mondo in furia sempre con a portata di mano un po’ di commiserazione, humor, arguzia, finezza del wit.
Tuttavia, al momento del suo taglio netto, il cordoglio fu amaro: «Sono seduto in una delle bettole / Della Cinquantaduesima / Incerto e spaventato: allo scadere / Delle speranze furbe / Di un decennio indegno e disonesto: / Onde di rabbia e di paura / Circolano sulle luminose / E oscurate contrade della terra / Assillando la nostra vita privata: / L’indicibile lezzo della morte / Offende questa notte di settembre». La traduzione rende giustizia all’originale di «September 1, 1939», quando Auden era già dall’altra parte dell’oceano, lontano, questa volta, da ogni tentazione a una sua qualsiasi partecipazione all’evento, ripiegato, com’era, su vita «privata», vita da esule.
Nell’ascoltare la notizia radiofonica sullo scoppio della guerra in Europa, lo sdegno si trasforma velatamente e ironicamente in poesia di «occasione», sia pur dottamente elevata, ma alla maniera peripatetica della città che lo ospita, e che forse diede il clue a Frank O’Hara, uno dei futuri poeti flâneur di New York, di riprenderne il vezzo. Poesia di «occasione», lì seduto in un qualsiasi pub di New York, ma, tutto sommato, poesia non di rinuncia: «Io tutto ciò che ho è una voce / Per disfare la bugia fra le pieghe». La conversazione con il mondo continua: «Indifeso nella notte / Il nostro mondo inebetito giace; / Ma sparsi ovunque / Punti di luce ironici / Lampeggiano ove i Giusti / Si scambiano messaggi: / Possa io, composto di Eros e di polvere, assediato / Dalla stessa negazione / E non meno disperato, / Mostrare una fiamma affermatrice».
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