«Aucune idée», la grinta irriverente e «da camera» di Cristoph Marthaler
Teatro Una Teoria di porte che si aprono e si chiudono, un condominio paradossale, dialoghetti che sfiorano il teatro dell'assurdo: al Bellini di Napoli
Teatro Una Teoria di porte che si aprono e si chiudono, un condominio paradossale, dialoghetti che sfiorano il teatro dell'assurdo: al Bellini di Napoli
Cristoph Marthaler è da molto tempo riconosciuto come uno dei maggiori maestri europei della regia. Ha realizzato diverse decine di spettacoli che sono stati acclamati in tutto il continente perché in modo molto personale e ferocemente critico, rileggevano e rappresentavano, ben oltre il senso letterale di «portare in scena», il patrimonio culturale comune: non solo il teatro, ma la stessa convivenza, i riti sociali e quelli familiari, i poteri economici e quelli del bon ton, insomma tutte le scale di valori impostesi lungo il ‘900. Trasformando e vivificando anche testi assai drammatici nell’uso comune, che scoprivano nuovi volti e significati mandandoli a suono di can can.
NEGLI ULTIMI ANNI i suoi spettacoli hanno forse girato meno, almeno da noi, anche perché il regista svizzero si è dedicato molto all’opera lirica. Era quindi particolarmente atteso il suo ritorno, offerto in questa nuova tornata del Campania Teatro Festival (e una sua creazione di maggiori dimensioni è annunciata da Emilia Romagna Teatro).
Con Aucune idée, andato in scena al teatro Bellini, e di cui firma oltre alla regia la stessa ideazione, Marthaler sembra a prima vista approdare al «teatro da camera». Anzi «teatro di camere», anche se non ne vedremo mai l’interno perché la geometrica scenografia consiste proprio in una teoria di porte, come fosse un vasto condominio monopiano, che continueranno ad aprirsi e chiudersi, anche dialogando con noi spettatori e con i due interpreti sulla scena, attraverso rumori, musiche, buste postali dalle apposite cassette, e anche tramite le difficoltose serrature che il «protagonista» Graham F. Valentine cercherà ripetutamente di vincere senza successo.
L’altro interprete è Martin Zeller, che suona il violoncello ma non si lesina nel misurarsi col collega in stringati dialoghi paradossali, spesso divertenti, talvolta criptici. Quando interlocutori, di quei secchi botta e risposta, non sono voci senza volto, come quella dell’inquilino che sta per essere derubato e in fondo non gli dispiacerebbe neppure, se il tentato ladro non fosse così improvvido.
In quei paradossali dialoghetti, di figurette stilizzate, Marthaler conferma la sua grinta irriverente che ben conosciamo, cui si aggiunge un qualche amaro sapore di «preoccupazione».
Come se lo stesso autore fosse in fondo in qualche modo preoccupato, per una situazione generale che si è andata degenerando, e non valesse più neanche tanto la pena di irriderla e ridicolizzarla. Tanto da rischiare a tratti di scivolare verso quello che venne definito «teatro dell’assurdo», che oggi a parte qualche sorriso, finisce quasi per commuoverci. Anche perché da allora è passato più di mezzo secolo, con effetti non proprio irrilevanti di gusto e di «aggressività».
RESTANO INVECE nella memoria, della Nessuna idea con cui Marthaler ha dato maliziosamente titolo allo spettacolo, certi lampi fulminanti, assai godibili per quanto amari, perché impregnati di consapevolezza esistenziale, proprio per il risuonare di quel déjà vu. Così resta apprezzabile, dal parte di un maestro, che tutto sia creato in funzione (o forse in omaggio) a Valentine, suo collaboratore da sempre, con la maschera allampanata, che ci ricorda altre ficcanti irrisioni di scienza, amicizie, famiglia e comportamenti collettivi.
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