L’architettura dell’umano, calcolo della precarietà esistenziale, trovare l’unità di misura per questo tempo. Immaginare come si possa provare a restare in piedi, barcollando di continuo, provando a non cadere, oppure cadere e, dal suolo, cercare di rialzarsi, una, dieci, cento volte e farcela e non farcela. Vagare tra giovinezza e vecchiaia, tra periferie e strade statali che non portano da nessuna parte, farsi i conti nelle tasche, tentare di far quadrare i sentimenti. Qual è l’amore possibile tra queste solitudini: gli isolamenti, quasi sempre non voluti, ma capitati, costretti. Dove stanno le nostre case, quali sono, quali i paesaggi: giardini o rovine? Fabbriche abbandonate o centri commerciali? Condomini tutti uguali, persiane rotte, monolocali senza senso o ville modernissime alla periferia di Mogliano Veneto? Competere o lasciar perdere? Conformismo o cosa?

I SOLDI, averli non averli, sopravvivere. Crescere, invecchiare, quasi sempre da soli, quasi sempre sconfitti. Francesco Targhetta con La colpa al capitalismo (La Nave di Teseo, pp. 160, euro 18), tenta – con versi molto belli – di trovare un equilibrio tra due malinconie, quella che è determinata dalla resa alla modernità, e quella che viene da una resistenza all’attuale. Entrambe fissate sugli occhi delle persone che vagano tra (qualche volta) oscuri e (altre volte) luminosi tentativi di sopravvivenza: «ma poi si accontenta / di essere triste // e di amare follemente le cose / tristi, certe strade, traiettorie, pavimenti». Che si arrendano o resistano, i personaggi di Targhetta lasciano scie luminose, da seguire, da calpestare. Le orme sul sentiero somigliano alle nostre.

Il panorama umano qui si amplia, Targhetta è cresciuto, e non gli bastano più i ragazzi di Perciò veniamo bene nelle fotografie, riuscitissimo romanzo in versi che ha ormai dieci anni, per raccontare questi giorni meglio che si possa, ha bisogno anche dei vecchi, di intere famiglie, delle badanti moldave, delle domeniche degli extracomunitari, di palestre, di macchinisti, di Vito, di Tiziano e le sue bandiere (questa, una delle parti più belle del libro) e di Marghera: per quel ferro, quell’acciaio, quelle storie, compone una toccante elegia.

IL POETA TREVIGIANO necessita di altri occhi oltre i suoi, ha bisogno di toccare queste esistenze, camminarci di fianco, se occorre, berci o piangerci insieme; perché se si va da qualche parte, disastro o meno che sia, ci si va tutti insieme, anche ignorandoci, anche detestando o, peggio ancora, ignorando, chi ci cammina di fianco.
«Purché soli è possibile una sera / alle cose riconoscere bellezza», e prova a vedere, Traghetta, se possa esistere un minimo conforto nella solitudine comune, la risposta è chissà.

La colpa al capitalismo è un libro intenso, commovente. È pervaso da un ritmo che dondola il lettore come se fosse su un’altalena, ci si spinge in avanti leggendo le poesie che compongono le varie parti, si torna indietro a prendere la spinta, attraversando i paesaggi poematici. Sembrano isole i poemetti, o rotonde che separano le vie della struttura tradizionale e ci spingono ad allargare la visuale, a cercare la direzione, a non sbagliare l’imbocco di un cavalcavia, mentre qualcuno ci suona col clacson alle spalle.

«Tutti siamo soli / fino a prova contraria», questo libro è una prova contraria, lascia il lettore con la sensazione di essere parte di una comunità, seppur sbandata, seppur frantumata e devastata. Le poesie sono, quando riuscite, dei segreti dentro i quali trovare gli altri, non è poco.