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Atto iconico: la vitalità delle immagini

Atto iconico: la vitalità delle immaginiEdwin Lands, inventore della Polaroid

Horst Bredekamp IN «IMMAGINI CHE CI GUARDANO», TRADOTTO DA CORTINA, HORST BREDEKAMP RIDISEGNA IDENTITÀ E STATUTO DELL’OGGETTO ESTETICO PRENDENDO DI PETTO LA PROLIFERAZIONE ICONICA

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 17 maggio 2015

«Non iscoprire se libertà t’è cara ché ’l volto mio è charciere d’amore». L’autore di questa frase imperativa, annotata su un pezzetto di carta, è Leonardo da Vinci. L’allusione è alla consuetudine di velare le statue e di scoprirle nelle occasioni festive, a parlare – ed è questo l’aspetto singolare – è la statua stessa, che si rivolge direttamente a colui che la guarda. Il monito che proviene dall’opera trasforma la sua condizione di oggetto, che si offre passivamente alla visione dello spettatore, in quella di soggetto attivo: la visione diventa comunicazione.
Questa annotazione di Leonardo viene eletta da Horst Bredekamp a motto di quello che è certamente uno dei suoi libri più importanti per la densità teorica del discorso e per la vertiginosa ampiezza del suo percorso esemplificativo: dall’arte dei primitivi alle performance iconiche di Michael Jackson, dal San Sebastiano di Mantegna ai diagrammi dell’evoluzione di Charles Darwin. Si tratta di Immagini che ci guardano Teoria dell’atto iconico, uscito ora in traduzione italiana da Raffaello Cortina Editore (pp. XX + 382, euro 29,00) a distanza di cinque anni dalla pubblicazione in Germania presso Suhrkamp. Con questa importante iniziativa editoriale, che si avvale di un ampio apparato iconografico e dell’eccellente traduzione di Simone Buttazzi, nonché di una fine introduzione di Federico Vercellone, si apre finalmente l’occasione di un confronto con uno dei pensieri più originali intorno allo statuto dell’immagine e dell’opera d’arte e segnatamente al ruolo contemporaneo dell’estetica. Quella che ormai da molti è considerata una scuola, i cui rappresentanti più noti sono, oltre a Bredekamp (della Humboldt Universität di Berlino), Gottfried Boehm (Università di Basilea) e Hans Belting (emerito dell’Università di Heidelberg), ha avuto il merito di situare il discorso sull’arte nell’ambito di una più generale Bildwissenschaft (scienza dell’immagine) che ha contribuito a eliminare le residue tentazioni storicistiche e soprattutto la reductio dell’arte a puro fatto estetico inaugurata dalla kantiana Critica del giudizio.
La scienza dell’immagine, e in particolare la teoria dell’atto iconico, si muovono esattamente nella direzione opposta: se l’estetica aveva irrigidito l’icona nella fissità asettica della sua perfezione, esse si preoccupano invece di riconquistare all’immagine la sua vitalità autonoma e la potenza del suo agire, quella che in origine era propria del mito e che l’imperativo della Ragione ha svuotato della sua energeia e della sua intima produttività.
Se «la più gran nemica della barbarie non è la ragione ma la natura» – come osservava acutamente Leopardi nello Zibaldone –, la de-realizzazione illuministica dell’arte comporta il rischio del suo imbarbarimento. Per sottrarre l’icona artistica a questo paradossale destino e per riconquistarle le prerogative originarie, la Bildwissenschaft ha dato vita così a un ampio spazio sperimentale in cui si incontrano interessi disciplinari differenti, dall’antropologia alle scienze naturali, dalla psicologia alle scienze cognitive. Osservando l’opera non più come un artefatto puramente estetico ma come Bildakt, ossia come icona generatrice di azioni e reazioni, il discorso di Bredekamp sa offrire chiavi di lettura estremamente interessanti della rinnovata centralità che l’immagine ha assunto nella nostra epoca. Per questo Immagini che ci guardano è un libro ‘necessario’, che offre strumenti per capire l’attuale proliferazione rizomatica delle immagini e la tendenza alla progressiva esautorazione della parola e della razionalità discorsiva che su di essa si fonda. Ma il libro di Bredekamp è anche un oraziano miscere utile dulci perché attraversato da una continua intonazione narrativa, un vero e proprio romanzo di figure provenienti da una diacronia che spazia dall’arte dei primitivi alle realizzazioni più recenti.
In questo percorso erratico che attraversa i millenni della storia dell’arte e con gesto warburghiano sa scoprire analogie là dove le vulgate storiografiche vedono solo differenze, càpita di incontrare opere parlanti attraverso iscrizioni nelle opere stesse oppure i tableaux vivants in cui «l’arte pare trasformarsi nella vita senza passaggi intermedi e la vita trascende nell’arte». Puntando l’attenzione sul potenziale performativo dell’opera, si assottiglia necessariamente la differenza tra arte e vita e tra arte e natura facendo così esplodere le assiologie del passato ma consentendo di ridisegnare l’identità dell’oggetto estetico alla luce delle trasformazioni contemporanee, in primo luogo al cospetto dell’ipertrofia iconica che segna la nostra epoca.
Uno degli aspetti più fecondi del saggio è rappresentato dalle occasioni di confronto interdisciplinare che esso offre. Ad esempio con la critica letteraria. La teoria dell’atto iconico si basa su una valorizzazione della soggettività autonoma dell’opera sia rispetto alla funzione egemone dell’artefice sia nei confronti del protagonismo critico-ermeneutico dell’interprete. Un’autonomia che ricorda l’idea benjaminiana di una maturità postuma dell’opera, che attende di essere riconosciuta ma la cui identità prescinde da chi la recepisce. In altre parole, rivendicare autonomia all’opera – come ha osservato Bredekamp in una recente conferenza italiana – equivale a riconoscere «la magia del surplus della forma contro le pretese totalizzanti insite in ogni costruttivismo».
Questa spontaneità metamorfica dell’opera che si sottrae a una programmazione a priori, è ciò che le restituisce una funzione storica precisa nell’eterno avvicendarsi delle attese del pubblico, e soprattutto reclama un interlocutore in grado di coglierne lo status vivente. Il libro di Bredekamp è ricchissimo di esempi, ognuno dei quali è una narrazione a sé: fra le più sorprendenti quella che riguarda la ‘trasmigrazione’ di alcuni particolari del monumento funebre di Filippo l’Ardito verso i movimenti ondulatori delle sculture architettoniche di Frank O. Gehry. «Nell’estate del 1993, Gehry e lo storico dell’arte Irving Lavin fecero visita alla Certosa di Champmol a Digione, risalente al 1400 circa, imbattendosi nelle sculture tardo-medievali del monumento funebre di Filippo l’Ardito, realizzate da Claus Sluter. Gehry fu colpito in particolare dalla serie di figure a lutto, poiché il pathos dei vestiti pareva seguire criteri analoghi alle membrane della sua architettura. A ispirarlo furono soprattutto le forme ondose del velo posto sul volto di una delle statue, tanto da riutilizzarle in diversi modelli, come quello della Lewis Residence, i cui spazi riproducono i movimenti ondeggianti dei drappeggi di Sluter». Narrazioni di forme, dunque, che alla fine si dispongono in una sorta di grandioso atlante di immagini e figure che ricorda, e non poteva essere altrimenti, il Bilderatlas Mnemosyne di Aby Warburg.
Dall’officina critica di Bredekamp e dai suoi percorsi della memoria giunge un invito perentorio a ripensare radicalmente le pretese di un soggetto proprietario ed egemonico, quello su cui si è costruita la Modernità e l’estetizzazione ‘anestetica’ dell’arte, come l’ha chiamata Odo Marquard. Nello stesso tempo tuttavia, dalle pagine di questo libro – a modo suo una geniale ‘opera mondo’ – giunge un invito non meno esplicito a congedare tanto le derive decostruzioniste quanto le demonizzazioni dell’universo fantasmatico della société du spectacle e dell’immagine come pura apparenza.

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