A giudizio di Cesare Brandi, Gian Lorenzo Bernini (1598-1680) mostra fin dalle sue prime opere di porsi «di fronte alla natura con un assorbimento totale», tanto da acquisire precocemente un suo speciale «modo di captazione immediata dell’oggetto».

Una capacità, questa di cogliere «l’oggetto in tutta la sua varietà e minuzia fenomenica», che, tuttavia, non mette capo, nel realizzare l’opera di scultura, ad una «trascrizione morta» dell’oggetto rappresentato. E Brandi ribadisce che Bernini, «pur avendo la possibilità di captare immediatamente e di riprodurre l’oggetto, tende a colpire in esso l’attimo, a fissarlo nell’istante».

Percezione visiva e percezione temporale farebbero in Bernini tutt’uno e, dell’oggetto osservato, restituirebbero alla sua riflessione creativa la presenza e, ad un medesimo tempo, la transitorietà. Dove il transitorio è sentito e formulato non come effimero, caduco, ma come mutevole.

Così la captazione immediata di cui parla Brandi, pone Bernini di fronte fino alle minuzie della realtà fenomenica, fino ai suoi aspetti infinitesimi, che sono registrati dall’occhio appunto nella misura infinitesima di tempo: l’attimo.

Leonardo nel Trattato della pittura ha una straordinaria descrizione ‘visiva’ dell’attimo quale estrema («minutissimi attimi» dice Leonardo) misura indivisibile d’un ‘corpo’ (l’«oggetto» di Brandi), atteso che, e va tenuto ben fermo, il termine «attimo» viene da «atomo».

E nel significato di atomo Leonardo impiega giustappunto attimo, termine dove, tuttavia, la nota ‘temporale’ risuona inevitabilmente: «Vedesi ancora la diversità (nel senso di varietà, di molteplicità) negli attimi di polvere o negli attimi del fumo, ne’ razzi solari che passan per li spiraculi delle pariete in lochi oscuri, che l’un razzo pare essere cenereo e l’altro del fumo sottile pare essere di bellissimo azzurro».

Il brano di Leonardo descrive perfettamente la presenza di un cosmo in permanente movimento rivelato dall’osservazione dei corpuscoli in sospensione quando un raggio di luce li rende visibili. E delle lente, aeree dinamiche che muovono quel pulviscolo, come delle variazioni cromatiche che vi si determinano a seconda del mutare delle intensità luminose che lo attraversano.

Da qualcosa di molto vicino e assai simile a questa percezione dello spazio e del tempo (dei volumi nello spazio e dei volumi nel tempo) descritta da Leonardo nasce la poetica di Bernini intesa a dar conto dell’istante in scultura, «una somma di istanti» per come argomenta Brandi, quale adeguata «possibilità di cogliere nel vivo» e il ‘vivo’ conformare in opera.

Se l’attimo è il tempo presente nella sua puntuale rapidità, tutt’altra declinazione del tempo presente comporta l’istante. Tanto puntuale, netto è il presente dell’attimo, quanto è ‘interstiziale’ il presente dell’istante se, come si evince dal termine latino (instans), vale «premere, incalzare, essere imminente».

È l’imminenza che Bernini comunica nell’opera sua, un sentimento di attesa: che abbia compiuto svolgimento quanto sta accadendo sotto i nostri occhi, spettatori chiamati ad assistere ad un evento che ha avuto un suo inizio, ma impone ora che giunga a una sua conclusione. Condizione di imminenza, di mutazione, di trasformazione.

È quasi pleonastico richiamare qui l’Apollo e Dafne della Galleria Borghese, la metamorfosi del corpo di Dafne in pianta di alloro non ancora integralmente compiuta che Bernini scolpisce tra i ventuno e i ventitre anni.

Meno scontato rifarsi a la Beata Ludovica Alberoni nella chiesa romana di San Francesco a Ripa che si data al 1673, 1674, Gian Lorenzo settantacinquenne.

Come l’istante scolpito di Dafne è quello del suo passaggio nel regno vegetale, così l’istante scolpito di Ludovica è quello del suo transito dalla vita alla morte.

Si diceva di un tempo interstiziale, un ora che al contempo è presente ed imminente: è ed è per essere. Ludovica giace riversa, la testa appoggiata al cuscino, le mani che si afferrano al petto in un supremo alito di vita che trascorre il velo e la stoffa dell’abito monacale.

Non c’è la stasi della morte corporale, ma il transito dall’una all’altra vita (Mors utriusque vitae medium) dal mortale all’eterno.