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Attenzione sinistra, il populismo non è un virus

Attenzione sinistra, il populismo non è un virus

«Fase 2» Nella ripresa il paese si ritroverà dilaniato da contraddizioni e difficoltà ancora maggiori di quella in cui versava prima della pandemia. Se per ora il pericolo dei populismi sembra scampato la sinistra deve attivarsi per rispondere alle esigenze dei poveri

Pubblicato più di 4 anni faEdizione del 6 maggio 2020

Attenzione, sinistra, il populismo non è un virus, non contagia per contatto o vicinanza! Prende piede nel disagio, quando i bisogni reclamano risposte e le promesse di sostegno vengono disattese. Se è vero che, per un po’ almeno, «nulla sarà più come prima», non illudiamoci, le premesse ci sono già perché tutto cambi perché tutto torni com’era prima. Alle vecchie disuguaglianze se ne aggiungono delle nuove e se la sinistra non saprà arginarle, il populismo ritroverà più linfa ad alimentare il suo consenso.

Siamo entrati nel lockdown con una società che era diseguale in (quasi) tutto, con enormi disparità economiche, sociali e culturali. Se prima della pandemia la percezione del futuro era fosca, per molti, abbacinata dal turbinio tecnologico dove «tutto cambia troppo in fretta» e il mondo sembrava sempre più piccolo, oggi quella percezione si è fatta vuota, il mondo in cambiamento appare sfuggito di mano per milioni di persone che devono «ricominciare da zero». Il Bel Paese è oggi come davanti a un muro, di là c’è il nulla, ma «guarda il muro e si guarda le mani, convinto di avere delle idee», per non avere paura.

La prospettiva mozza il fiato. E smettiamola di parlare di guerra (una metafora abusata), che stavolta non stiamo avendo la meglio su un nemico né siamo forti di essere dalla parte del giusto. Stiamo pagando, sì, la nostra cecità verso la degradazione ambientale, la distruzione della biodiversità, il proliferare di patogeni e fauna in un mondo in cui la natura è stata mercificata, essa stessa resa industria. E però, se tanta è la fiducia che oggi riponiamo in scienziati ed esperti su questo contagio, perché mai non abbiamo ascoltato – noi, i nostri governanti – gli appelli a fermare, subito, prima che fosse troppo tardi il riscaldamento globale?

L’Italia che torna al lavoro incerta – combattuta tra esigenza di evitare il contagio affidandosi alla «responsabilità» e agognato ritorno alla «normalità» – è un’Italia fiaccata dalle disparità che va più presa per mano che sgridata. È l’Italia in preda all’ansia per come sbarcare il lunario che andrà accudita, se non vogliamo che esploda di frustrazione e rabbia. L’Italia dei ceti medi impoveriti che rialza la testa stordita. Nel suo ultimo rapporto, nel pieno dell’emergenza, l’Ocse ci ricordava che, prima della pandemia, eravamo il Paese con il tasso di fiducia nei suoi governanti più basso di tutti, secondi solo alla Grecia. Eppure, abbiamo seguito a testa bassa le disposizioni vigenti.

Eravamo il Paese con un tasso di disuguaglianza tra i più alti in Europa, dove 3 cittadini su 10 faticavano ad arrivare a fine mese, dove il 10% più ricco aveva in mano più della metà della ricchezza totale e un quarto della popolazione era a rischio di povertà. Da noi, ben una famiglia su sette viveva in abitazioni sovraffollate (meno di una stanza a testa) e una quota appena superiore spendeva più del 40% del reddito solo per affitto, utenze e spese domestiche. I nostri ragazzi, tra i loro coetanei europei, avevano tra i punteggi più bassi in abilità di lettura, calcolo e discipline scientifiche.

E più erano modeste le condizioni economiche delle loro famiglie, peggiore era il loro rendimento. E gli adulti erano ancora più indietro: tra gli italiani, uno su sei era «analfabeta funzionale» come o peggio di Messico, Cile, Turchia o Spagna. E i figli di genitori con bassi livelli di scolarità erano quelli con meno opportunità di accedere a livelli di scolarità superiori. L’Italia, peraltro, era già un Paese dove chi ha livelli di scolarità più bassi si ammala di più (e ha una speranza di vita di qualche anno inferiore).

Il lockdown, poi, ha fatto il resto, investendo un Paese povero nelle sue fasce e zone più deboli – prive di mezzi culturali e di conoscenza, angustiate da disoccupazione, inattività, disagevoli condizioni abitative e di vita, soprattutto nelle aree rurali, marginali e periferiche. Ma se il Paese ricco oggi scalpita irrequieto, c’è anche il Paese dei giovani precari, dei ragazzi lasciati a casa, delle scuole chiuse, delle lezioni «on-line» per due terzi di essi, quando va bene, delle famiglie abbandonate a se stesse, dei disabili senza assistenza.

Eppure, questo era il Paese che dopo la crisi del 2008 aveva ancora creduto nella promessa riformista – la via italiana al blairismo in salsa dem – per ricredersi poi quando l’austerity europea era stata sposata dalla sinistra e dando credito, nel 2013, al confuso populismo «egalitario» pentastellato.

Le persistenti disuguaglianze, il mancato sviluppo e la stasi successiva avevano fatto il resto, permettendo l’exploit populistico-sovranista nel 2018. Se i populisti al governo hanno poi fallito, la sinistra sonnambula non è però ancora uscita dal suo torpore e ora gli ingredienti ci sono tutti perché quello possa trovare nuova linfa se non viene preso di petto e affrontato.

L’occasione è propizia, come si augurano in tanti. Non sarà la «fine del capitalismo», né la rinascita dello Stato sociale modello «anni gloriosi». Ma non si può pensare che il Paese si rimetta in piedi da solo perché da solo ce la farà chi ha i mezzi. Dovremo creare opportunità, azzerare sperequazioni di condizione.

Uno Stato innovatore, sì, manche equalizzatore. Non solo – e questo sarebbe già apprezzabile – per ragioni di equità morale. Ma perché se non vogliamo poi piangere sulla rivincita dei populismi dovremo poter dire che al disagio abbiamo provato a dare risposta. È il momento per la sinistra per ritrovare la sua identità: lo sviluppo sarà «sostenibile» solo se sarà inclusivo, pena ritrovarci su di un pianeta deserto, forse debellato dal virus, ma più cattivo e invivibile di prima.

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