Assmann: monoteismo, esodo e teologia del patto
Nicolas Poussin, Adorazione del vitello d’oro (part.), 1634, Londra, National Gallery
Alias Domenica

Assmann: monoteismo, esodo e teologia del patto

Studi sull'Antico Testamento Anni dopo «Mosè l’Egizio», Jan Assmann completò l’indagine sulla rivoluzione religiosa dell’ebraismo, ponendo come valore supremo, al posto della verità, la fedeltà: «Esodo», da Adelphi
Pubblicato più di un anno faEdizione del 2 luglio 2023

Quasi venti anni separano la pubblicazione di Mosè l’egizio. Decifrazione di una traccia mnestica, l’opera con la quale Jan Assmann, egittologo di chiara fama, inaugurava nel 1997 una vasta indagine dedicata alla rivoluzione monoteistica legata tradizionalmente alla figura di Mosè (Adelphi, 2000), dal volume che nel 2015 la conclude su un diverso registro temporale e concettuale: Esodo La rivoluzione del mondo antico (Adelphi «Il ramo d’oro», traduzione di Ada Vigliani, pp. 428, € 42,00). Già i rispettivi sottotitoli bastano a segnalare il mutamento imposto all’indagine; non più la traccia mnestica che andava estratta laboriosamente dalle tradizioni relative al Mosè egizio, di cui si è conservata memoria culturale dall’antichità fino a Freud, bensì la rivoluzione introdotta dalla concezione religiosa che sostiene la tradizione dell’esodo dall’Egitto, vale a dire la teologia biblica del patto, «che entra in scena in epoca preesilica con i Profeti anteriori, perviene alla sua forma canonica nel Deuteronomio e nella tradizione deuteronomistica e, attraverso le sue innumerevoli trasformazioni, sopravvive fino a oggi».
Va inoltre tenuto presente il saggio con cui l’autore rispondeva nel 2003 alle critiche che si erano riversate da opposti fronti su Mosè l’egizio, in particolare sul concetto di «distinzione mosaica», introdotto da Assmann per caratterizzare la svolta teologico-politica che dal politeismo aveva condotto alla rivoluzione monoteistica, già precariamente anticipata dal re egizio Ekhnaton nel XIV secolo a. C. (La distinzione mosaica ovvero Il prezzo del monoteismo, Adelphi, 2011). Anche in questo caso è il sottotitolo o titolo alternativo ad avvertire il lettore dello scarto che lo studioso introduce nel trattare una questione che si vorrebbe senz’altro acquisita, vale a dire la positività del monoteismo costitutivo della religione biblica e di tutti i valori occidentali che su di essa si fondano.

L’idea di Assmann è infatti che il monoteismo biblico, tradizionalmente associato al nome di Mosè, abbia fatto proprio il carattere radicale e violento di controreligione che aveva connotato il monoteismo di Ekhnaton, introducendo in ambito religioso una concezione antagonistica del tutto estranea alle religioni politeiste del mondo antico, approdate a un cosmoteismo che non faceva questione dei nomi attribuiti alla divinità, tutti parimenti atti a designare l’unica divinità universale. Di qui lo shock rappresentato dall’opposizione tra vero Dio e i falsi dèi, tra religione vera e false dottrine, tra il credere e la miscredenza, che in definitiva introduceva la distinzione tra vero e falso in ambito religioso.

Il monoteismo ebraico e di conseguenza cristiano e islamico avrebbero ricevuto questa forma, seppure, notava Freud, contendendo tra loro su quale sia in possesso della verità definitiva. Una forma di cui Assmann coglie l’analogia con quella assunta dalla scienza a seguito della distinzione «parmenidea»: così come l’una distingue tra religione vera e religione falsa, l’altra distingue tra conoscenza vera e conoscenza falsa, tra pensiero «selvaggio» e pensiero logico. Posizioni entrambe radicali e per la loro forza di negazione ed esclusione intrinsecamente intolleranti ciascuna nel proprio ambito; e d’altra parte tra loro incompatibili, dal momento che sapere non è credere e viceversa, mentre «prima di tale distinzione sapere e credere – e quindi scienza e religione – erano la stessa cosa».

Dunque ciò che si delinea grazie alla riflessione critica dell’egittologo circa la genesi del monoteismo è una cultura che ha introdotto nuove forme di intolleranza, violenza, antagonismo, esclusione, variamente modulate secondo le rispettive concezioni etico-religiose e i rispettivi percorsi storici. Questo va detto in particolare per ciò che concerne il monoteismo ebraico, che per la sua peculiare forma di autoesclusione religiosa legata alla nozione di popolo eletto ha rivolto la violenza esclusivamente al suo interno, come è attestato esemplarmente dall’episodio del vitello d’oro, alla cui luce Assmann legge i racconti di massacri che segnano l’occupazione della terra promessa. Mentre l’universalismo cristiano e islamico tende a rivolgere la violenza all’esterno, verso quanti rifiutano la verità annunciata.

Va da sé che siffatte acquisizioni abbiano suscitato reazioni critiche, rivolte soprattutto a negare validità storica all’attribuzione della distinzione mosaica al monoteismo. Meno scontata l’accusa allo studioso di voler tornare al politeismo e al cosmoteismo, oltreché il sospetto di un suo latente antisemitismo. Contestazioni a cui Assmann non si è sottratto, ne ha anzi fatto occasione per riflettere più a fondo sulle questioni sollevate, senza ignorare il potenziale semantico che il suo testo sprigionava in quelle letture contrastanti. Penso che questa ampia disponibilità a comprendere, coniugando esercizio critico e attenzione alla ricezione e dunque all’attualità da cui lo studioso stesso muove, abbia a che vedere con la svolta operata da Assmann con la scrittura di Esodo.

Ne dà conto l’autore stesso nella Prefazione, allorché scrive di aver dovuto nel frattempo prendere atto della inadeguatezza del suo proposito di superare la distinzione mosaica tra vera e falsa religione se rapportata all’Israele dell’epoca preesilica, perché qui a essere posto come valore supremo al centro della religione non è la verità, bensì la fedeltà. Cosicché «non si tratta di distinguere tra vero e falso, bensì tra fedeltà e tradimento in relazione al patto che YHWH stringe con i figli di Israele, liberandoli dalla servitù egizia ed eleggendoli a suo popolo». Ed è «con l’idea del patto che viene al mondo la “fede”, l’autentica, rivoluzionaria novità del monoteismo biblico, sia esso veterotestamentario, neotestamentario o islamico».

In altri termini, il mito dell’esodo, che «racchiude probabilmente la storia più grandiosa e più gravida di conseguenze che gli uomini si siano mai raccontata», costituisce la sostanza del monoteismo. Ne è per così dire la verità sperimentata in forza dell’obbedienza al comandamento di un Dio la cui unicità è vissuta in rapporto alla comunità credente. Laddove il puro connotato di verità ha piuttosto funzione distintiva, oppositiva, in definitiva escludente ogni altra verità accanto alla propria, ma restando nondimeno secondaria. In quest’ultima magistrale trattazione del monoteismo propriamente biblico, centrale è dunque il connotato fideistico; a guidare e informare l’indagine è ora la nozione di «monoteismo della fedeltà» piuttosto che quella di «distinzione». Che non vuol dire mettere da parte il problema della verità in ambito religioso, incontestabilmente legato al monoteismo al punto da costituirne una categoria cruciale, bensì riconoscere che l’elemento peculiare e originario del monoteismo biblico è l’idea di patto inscindibilmente legato al racconto dell’esodo dall’Egitto.

Peculiare è altresì la trattazione di questo mito fondante dispiegata da Assmann come «storia del senso», un senso che ha uno sviluppo storico segnato da mutamenti, tappe, svolte cruciali, e d’altra parte un senso che ha a che fare con la storia dell’influenza sul cristianesimo e sull’islam dei testi in cui ha trovato dapprima espressione il paradigma fondamentale del primo ebraismo. Una storia di cui l’autore si sente «osservatore partecipe»: osservatore, perché l’egittologia gli fornisce un punto di vista significativo sia all’esterno che all’interno della tradizione dell’esodo; partecipe, perché cresciuto nel cristianesimo evangelico e perché tedesco che, nato al tempo dei gravissimi crimini avvenuti nel suo paese, non può leggere il libro dell’Esodo senza avvertirne personalmente le risonanze.

Né certo è casuale che nel quadro di questa esposizione partecipe, Assmann abbia inteso evocare il Mosè ed Aronne di Arnold Schönberg, opera che in un momento cruciale per la civiltà europea «ha mostrato allo spettatore cosa significhi iconoclastia, la liberazione dell’uomo dai falsi dèi … che lo tengono incatenato alla sensualità e alla transitorietà», esemplata nel dissidio intorno al vitello d’oro. Un episodio cruciale a cui, qualche anno prima che Assmann iniziasse la sua impresa, era ricorso Pier Cesare Bori per riflettere su un’altra distinzione non meno carica di effetti negativi, quella che ha lungamente opposto la «spiritualità» cristiana alla «carnalità» giudaica.

A sua volta spinto dalla necessità di stabilire un rapporto critico con le proprie origini, Bori scriveva che «è importante sapere donde si viene, quali che siano le vie, anche le più nuove, che s’intende intraprendere» (Il vitello d’oro. Le radici della controversia antigiudaica, riedito nel 2022 da Bollati Boringhieri con prefazione di Carlo Ginzburg). Assmann ha dunque avuto ottime ragioni per sostenere che in definitiva la vera questione non è la realtà storica né di Mosè né del racconto dell’esodo dall’Egitto; perché qualunque cosa sia avvenuto in quel remoto passato, contano le circostanze storiche che hanno permesso l’enorme crescita letteraria di una storia che ha cambiato davvero il mondo e riconoscerne in definitiva il carattere performativo, «nel senso che essa trasmette un’identità a coloro che la raccontano».

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