Viviamo oggi in un mondo che va letteralmente a fuoco: dalle fiamme dell’ennesima guerra tra sovranità armate, a un clima rovente frutto (avvelenato) di quasi due secoli di individualismo possessivo. Tornare allora a parlare di comune – singolare collettivo che riassume una fenomenologia variegata: commons, mutualismo, autogoverno, cooperazione sociale – ha evidentemente il sapore di un’urgenza che stinge in necessità. Meno evidente potrebbe però apparire la scelta di esplorare questa terra di mezzo tra proprietà e Stato con la bussola del diritto privato – quello, per capirci, che si è abituati a far rimare con individuo, patrimonio, mercato.

È precisamente a questo esercizio di cartografia paradossale che ci invita l’ultima fatica di Michele Spanò in Fare il molteplice. Il diritto privato alla prova del comune (Rosenberg&Sellier, pp. 144, euro 13). Montaggio sapiente e, non ultimo dei suoi meriti, estremamente godibile di saggi prodotti nell’arco di poco meno di un decennio.

FARE IL MOLTEPLICE è la formula che campeggia all’ingresso di questo ambizioso cantiere di ricerca. E dice già molto. Dice, innanzitutto, la natura pratica e non solo speculativa dell’operazione, se per praxis intendiamo, in senso tutto materialistico, un agire collettivo che modifica lo stato di cose presenti. Dice, poi, il carattere programmatico e aperto del suo oggetto, quel comune che non semplicemente è ma va fatto o, meglio, si fa: «un molteplice cooperativo – un’assemblea eterogenea» che, scrive Spanò, «si dà forma».

Peculiarissima ontologia, quella in cui il soggetto non preesiste all’azione che lo fa essere, e in cui la materia sociale non attende passiva di essere informata ma, autonomamente, si in-forma. Nessuna metafisica però: è il diritto con la sua concettualità, le sue pratiche, i suoi rimedi a garantire questa speciale prestazione performativa. Le astrazioni giuridiche, spiega Spanò via Yan Thomas, non descrivono né semplicemente prescrivono: istituiscono. Una volta calate sul terreno procedurale, esse retroagiscono sui loro referenti per trasformarli e, al limite, evocarli. Il rapporto è dialettico, non mimetico.

MA – ECCO IL PUNTO – di quale diritto parliamo quando parliamo di diritto del comune? La proposta del libro, lo si accennava, può suonare come una provocazione: è il diritto privato il cavallo su cui siamo invitati a puntare. Occorre tuttavia intendersi: il «privato» cui qui si richiama non è quello a cui la cottura – non troppo lunga, peraltro – della storia giuridica ci ha abituato. I saggi del volume costituiscono, anche, uno scavo archeologico inteso a minare alle fondamenta – ben scavato, vecchia talpa! – quell’impalcatura ottocentesca, figlia di codificazioni e pandettistica, che ha instaurato (attenzione: non semplicemente regolato) il «rapporto sociale di capitale», e che oggi ci circonda con la stessa evidenza di una natura.

È questa infrastruttura giuridica che, come una radiografia, l’analisi rivela dentro la grande trasformazione capitalistica, il meccanismo che ha fatto da condizione di possibilità all’accumulazione originaria e alla valorizzazione del valore. «Topologia moderna» la chiama Spanò, per nominare lo speciale dispositivo che è servito a mascherare, sotto il velo di una presunta opposizione, la solidarietà segreta di imperium e dominium, stato e mercato, pubblico e, appunto, privato. Ciò che in realtà li accomuna è la forma logica dell’Uno, che lo si scriva con la «u» minuscola di individuo proprietario o con quella maiuscola di Stato sovrano. Di qui un effetto di sbarramento: al molteplice, al collettivo – a ciò che è più d’uno, ma meno di Uno – è negato ogni accesso alla soglia della giuridicità.

PER «FARE IL MOLTEPLICE», insegna Spanò, bisogna allora prima disfare o, ancora meglio, disfarsi della topologia moderna. La «dipolarità» di diritto privato e diritto pubblico è una storia, non un destino: nulla, sul piano teorico, impedisce di disancorare entrambi dall’armatura ideologica che li lega e immaginare «un diritto pubblico non sovrano e un diritto privato non patrimoniale». Quest’ultimo, soprattutto, una volta liberato dalla camicia di forza dell’Uno, può essere riscoperto nella sua veste romana di diritto civile, dove civitas è il nome non di una sostanza collettiva ma dell’assemblaggio contingente di relazioni, desideri, interessi, bisogni disparati.

Così ripensato, il diritto privato – o, come Spanò preferisce dire con Widar Cesarini Sforza, il «diritto dei privati» – viene a configurarsi come un diritto della città, il suo «vocabolario politico», la forma immanente capace di «riappropriare alla cooperazione il comune che essa produce». La coniugazione al presente non è casuale: il molteplice cooperativo è già, qui e ora, fonte di valore. Per riconoscerlo, e per esperirne tutta la potenzialità politica, non c’è che da smettere le nostre vecchie lenti ottocentesche e, come uno dei saggi invita esplicitamente a fare, prepararsi a «cambiare sole».