Una mostra che aiuta a ricordare come, malgrado alcuni si ostinino ad affermare il contrario, «non c’è stato un fascismo buono». E che la violenza e il razzismo sono serviti spesso, allora ma anche in seguito, a nascondere interessi inconfessabili, ruberie e corruzione. Questo il portato dell’ampia esposizione dedicata a «Giacomo Matteotti. Vita e morte di un padre della democrazia» che è stata inaugurata ieri mattina, con una conferenza stampa cui hanno partecipato, tra gli altri, il sindaco della Capitale Roberto Gualtieri e l’assessore alla Cultura capitolino Miguel Gotor, presso il Museo di Roma di Palazzo Braschi e che sarà visitabile fino al 16 giugno, a pochi giorni dal centenario del rapimento e dell’assassinio del parlamentare socialista avvenuto il 10 giugno 1924.

Curata dallo storico Mauro Canali che alla vicenda ha dedicato diverse opere, tra cui Il delitto Matteotti. Affarismo e politica nel primo governo Mussolini (Il Mulino, 1997), la mostra indaga la figura del politico del Polesine, la sua partecipazione alla nascita del Partito Socialista Unitario, la dura battaglia che condusse contro il nascente regime, culminata nel celebre intervento alla Camera del 30 maggio 1924 in cui denunciò l’esito truffaldino delle recenti elezioni politiche, fino ai motivi che spinsero Mussolini stesso ad ordinarne l’uccisione. Anche grazie a materiali e documenti inediti o raramente esposti, una vasta messe di immagini fotografiche e di brani di cinegiornali o film, la mostra costruisce così un percorso che raccontando il passato non cessa di interrogare il presente.

Mauro Canali

Professor Canali, anche grazie a materiali rari o inediti, la mostra conferma il ruolo dello stesso Mussolini nella morte di Matteotti e non solo la sua «rivendicazione» politica di quell’atto…
Oltre ad altri materiali conservati all’Archivio di Stato e che si possono consultare solo dagli anni Novanta, nella mostra sono esposti dei documenti autografi di Amerigo Dumini, il capo del gruppo di fascisti che sequestrò e uccise Matteotti, come la lettera che dal carcere quest’ultimo aveva fatto pervenire a Mussolini e nella quale dice esplicitamente «tiratemi fuori» se no qui parliamo e dobbiamo dire che abbiamo eseguito un ordine dato da voi come tanti altri crimini che avete ordinato con la garanzia dell’impunità penale. Questo, come altri documenti, erano in una valigia che Mussolini stava portando con sé nella sua fuga il 25 aprile del 1945 quando venne intercettato dai partigiani. In seguito, trasmessi all’Archivio centrale dello Stato non furono pero inventariati ma lasciati nei depositi per decenni.

Riprendendo alcuni suoi studi precedenti, la mostra fa emergere come a motivare la scelta di ucciderlo, non sia stata solo la denuncia della violenza del regime fatta da Matteotti, ma anche la possibilità che facesse lo stesso con la corruzione che coinvolgeva la stessa famiglia Mussolini…
Certamente. Oltre alla lettera che ho già citato, lo stesso Dumini ha lasciato una sorta di «testamento». Quando capisce che può correre dei pericoli perché sa troppe cose, lui che era americano di nascita, manda una descrizione dell’omicidio a due avvocati texani dicendo: se mi fanno sparire, rendetela pubblica. Nel testo spiega come si temesse che Matteotti, nel discorso che doveva tenere l’11 giugno alla Camera, denunciasse gli affari maleodoranti di petrolio che toccavano il fratello del capo del governo, Arnaldo Mussolini, il faccendiere di famiglia. Vale a dire le tangenti che la Sinclair Oil, legata alla più potente Standard Oil, aveva pagato a membri del governo fascista e allo stesso Arnaldo per assicurarsi il monopolio delle ricerche sul territorio italiano. Informazioni che Matteotti aveva probabilmente raccolto durante un viaggio in Inghilterra. Per questo il gruppo degli assassini decise di passare all’azione il giorno prima, il 10, mentre Matteotti usciva di casa.

In una stagione opaca, segnata dalla crisi della democrazia e dove all’interno delle istituzioni c’è chi tende a dire che nel fascismo ci fu anche qualcosa di buono, la mostra afferma tutta la drammaticità di quella vicenda storica…
Proprio la figura tragica di Matteotti segna uno snodo della vita politica nazionale. C’è uno Stato liberale che non sa raccogliere le istanze che vengono dal basso, che sono quelle delle masse che hanno fatto la guerra e adesso vogliono che le promesse vengano mantenute. C’è l’incapacità del movimento operaio e socialista che si divide in tre tronconi. In un certo senso Matteotti parla nel deserto, ma capisce che la democrazia se non risponde alle esigenze che vengono dal basso rischia sempre una deriva autoritaria. In questo senso la sua lezione credo ci riguardi ancora.