Assange contro Hollywood
Intervista esclusiva Julian Assange rompe il silenzio e parla via Skype alla stampa estera accreditata a Hollywood. Un colloquio a tutto campo, tra film in uscita e in preparazione, che non molla mai il punto: non c'è libertà senza informazione. Non c'è informazione senza trasparenza
Intervista esclusiva Julian Assange rompe il silenzio e parla via Skype alla stampa estera accreditata a Hollywood. Un colloquio a tutto campo, tra film in uscita e in preparazione, che non molla mai il punto: non c'è libertà senza informazione. Non c'è informazione senza trasparenza
“Can you hear me California, mi sentite?” Sono le prime parole di Julian Assange ai giornalisti che ha incontrato sabato sera, non nell’ambasciata ecuadoregna di Londra ma nella sede dei corrispondenti esteri di Hollywood, dove una quarantina di cronisti lo hanno intervistato via Skype. Il fondatore di Wikileaks è apparso sullo schermo da una dissolvenza da bianco, come un ectoplasma in un thriller hollywoodiano per parlare a tutto campo di una prigionia nell’ambasciata di Londra che prosegue ormai da oltre 500 giorni, di Wikileaks, dell’apparato di sorveglianza globale e… di cinema.
L’incontro infatti è stato calibrato per l’uscita in sala de Il Quinto Stato, la sua biografia ”romanzata” diretta da Bill Condon in cui il fondatore di Wikileaks ha il volto di Benedict Cumberbatch. Una pellicola aspramente criticata dal diretto interessato che ha intrapreso una campagna pubblica per sconfessarla. Mercoledì scorso è stata diffusa la lettera con la quale lo scorso gennaio Assange spiegava allo stesso Cumberbatch i motivi della sua opposizione al progetto: “Credo che lei sia una buona persona – si legge tra l’altro nel testo pubblicato da Wikileaks – ma questo film non è un buon film. Sotto forma di presunta fiction presenterà invece una distorsione della realtà su persone impegnate in un’impari lotta contro avversari titanici. Lei (Cumberbatch, ndr) verrà impiegato come un’arma assoldata per impersonare la verità con lo scopo di ucciderla”.
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Il film di Condon è effettivamente deludente: una versione pop-psicologica che presenta Assange nei panni di un uomo le cui ossessioni sono il prodotto di turbe adolescenziali. Una versione molto “melo” che ha ricevuto critiche a dir poco tiepide nel suo esordio allo scorso festival di Toronto e che agli occhi di Assange ha a un’ulteriore difetto: essere ispirata al libro di Daniel Domscheit-Berg, il collaboratore tedesco con cui Assange ha rotto dopo un intensa collaborazione durata fino alla pubblicazione dei documenti di Bradley Manning. Il film di Condon non è però l’unico sconfessato da Assange. Anche il documentario di Alex Gibney “We Steal Secrets” uscito quest’estate è stato denunciato dall’hacker australiano, che lo ha definito parte di una vendetta commissionata dal governo americano per conto di poteri forti che protegge. Inizialmente il documentario doveva essere una collaborazione fra Assange e il premio oscar Gibney (Enron, Mea Maxima Culpa, Taxi To The Dark Side, Armstrong Lie) ma i rapporti fra i due si sono presto deteriorati sulla questione del controllo creativo. La versione di Gibney è una cronaca assai densa della storia di Wikileaks, che dà molto spazio alla figura di Manning e attribuisce ad Assange la frase secondo cui “un collaboratore afghano delle forze Nato che venisse ucciso a causa della sua identificazione su Wikileaks meriterebbe la morte”. “E’ significativo che lo stesso titolo di quel doc – spiega Assange oggi – ricalchi l’accusa che ci muove il Pentagono. Non voglio speculare sui motivi di Gibney ma di certo in questi film americani comincia a emergere una convergenza con la versione propagata dall’apparato di sicurezza contro cui ci battiamo”. Nella sua lettera aperta aveva affermato che “i film narrativi possono venire usati come insidiosi strumenti per formare l’opinione pubblica, subdoli perché operano sotto il radar dell’analisi razionale”.
Con questo incontro, Assange amplia ancora di più il fronte della sua offensiva mediatica contro Hollywood.
Assange, perché critica “il Quinto stato”?
Intanto il film è tratto da due dei più celebri libri su Wikileaks. La Dreamworks ha deciso di acquisire quei diritti e usare gli autori come consulenti. Ma non ci hanno mai contattati, non hanno voluto il nostro contributo né hanno contribuito ai fondi per la nostra difesa legale. E’ semplicemente un’operazione opportunista e ostile. Ma il film non è stato fatto per il pubblico. La gente ci vuole bene, sostiene istintivamente i “partigiani”. Quindi produrre un film che dà voce alle bugie e alla diffamazione del governo Usa è sostanzialmente un autogol.
Perché ha deciso di parlare ai giornalisti di Hollywood?
Da quello che ho capito, l’associazione dei corrispondenti esteri di Los Angeles è stata fondata nel 1943 per contrastare lo strapotere degli studios che favorivano eslusivamente i grandi media americani. Se è così, è stata una sorta di “hack” ante-litteram. Oltretutto è un operazione che sottolinea una problematica fondamentale nei media e che mi sta a cuore: il rapporto fra coloro che gestiscono le informazioni e coloro che cercano di ottenerle. E’ utile riflettere sulla responsabilità della stampa, quella di essere effettivamente quel “quarto potere” di cui parlava Thomas Jefferson. E anche i media dello spettacolo hanno una responsabilità. I film di Hollywood dopotutto sono un prodotto culturale che ha un enorme effetto su come la gente vede e percepisce il mondo. E questo può avere un grande impatto nel momento in cui Obama ha intrapreso una vera crociata contro giornalisti e fonti “non ufficiali”. Una campagna di fronte alla quale impallidiscono quelle di tutte le precedenti amministrazioni. Perché? Guardate il recente fermo intimidatorio di David Miranda, il compagno del giornalista Glenn Greenwald all’aeroprorto di Londra. In Usa come in Inghilterra stiamo assistendo al degrado totale della libera stampa. E io credo che la stampa Usa abbia una buona parte di colpa per la situazione che si sta delineando nel mondo. E credo che la stampa del cinema abbia anche essa una parte di responsabilità e l’opportunità – se ci proviamo abbastanza – di cambiare le cose, invertire la rotta.
Da quanto tempo manca dagli Usa?
L’ultima volta che sono stato in California era il 2011. Avevamo appena reso pubblico il nostro documentario “Collateral Murder” grazie al materiale procurato da Bradley Manning. Allora non potevo sapere che probabilmente non sarei mai più tornato negli Stati uniti, né che non lo avrebbero potuto fare molti miei amici e collaboratori. Oggi gli USA sono diventati un luogo da fuggire piuttosto che un paese a cui chiedere asilo. Un luogo che sono stati già costretti a lasciare giornalisti come Glenn Greewald andato in Brasile, Laura Poitras costretta a rifugiarsi in Germania, Jacob Applebaum, fondatore del progetto Tor, anche lui in autoesilio in Germania. Alcuni cittadini britannici come Sarah Harrison, che ha accompagnato Edward Snowden nel volo da Hong Kong a Mosca, non possono più tornare in patria e non ultimo lo stesso Snowden, che abbiamo cercato di aiutare a trovare rifugio in America Latina e successivamente in Russia.
E poi lei, prigioniero in un ambasciata….
E’ difficile, certo, svegliarsi e vedere le stesse mura per 500 giorni. Allo stesso tempo sto lavorando molto e non devo più preoccuparmi di nascondermi. Continuiamo ad avere collaboratori leali e molto bravi in tutto il mondo, disposti ad aiutarci. Intellettualmente quindi non mi sento intrappolato da queste mura, infatti, oggi sono qui con voi. Quindi, in un certo senso, mentre io sono imprigionato qui c’è una prigione molto più grande in cui vivete anche tutti voi. Bisogna battersi per evitare che sia questa la realtà.
Si riferisce allo scandalo Nsa e allo stato di sorveglianza globale?
La “sicurezza” non può essere dominata da poteri che hanno a cuore i propri interessi invece che quelli dei cittadini. Gli Usa oggi rischiano di passare sotto il controllo di un apparato di sicurezza che in realtà è un sistema transnazionale, occidentale e non solo, di cui fanno parte agenzie di intelligence come Cia e Mi6, disposte a condividere i loro dati con paesi come la Cina e perfino con corporation private. Sono strutture che fanno i propri interessi, non quelli della gente. Quella fra sicurezza e libertà è una falsa scelta, una scusa inventata dal complesso industriale che c’è dietro l’apparato di sicurezza. Solo l’anno scorso sono stati secretati 7,7 milioni di documenti. La NSA intercetta 2 miliardi di messaggi al giorno e vorrebbero presto arrivare a 20 miliardi al giorno. Fin quando Wikileaks non sarà in grado di rendere pubblico lo stesso volume di informazioni non si può parlare di equilibrio.
E qual è la soluzione?
Personalmente sarei molto più tranquillo se gli apparati di di sorveglianza di Usa e Inghilterra, per esempio, fossero proporzionati a quelli di altri paesi per bilancio e numero di persone impiegate. Negli Stati uniti ci sono ora 5,5 milioni di persone impegnate in questo stato-ombra, uno stato nello stato. Ognuno ha parenti e amici, parliamo quindi di forse 15 milioni di persone in qualche modo coinvolte in questo apparato da stato-caserma. Non posso indicare una soluzione, ma so dove bisogna cominciare; il primo passo è rivelare le dimensioni del problema. Per questo è necessaria la trasparenza – solo così può apririsi un dibattito democratico e possono cominciare ad avanzarsi proposte alternative. Altrimenti, credo che ci saranno inevitabilmente molti altri disposti a seguire i passi di Greenwald, Potrias, Appelbaum, etc.: persone disposte a lasciare il proprio paese per rivelarne i segreti.
Come pensa che vi giudicherà la storia?
Non ci penso veramente, anche se poi la storia è scritta in molti modi. In genere è la menzogna sul passato su cui si trova un consenso. Abbiamo l’opportunità oggi di cambiare la storia e per una volta dirottarla dalla versione ufficiale. La gente parla di Wikileaks come di un’organizzazione militante e in un certo senso è così. Ma stiamo anche sviluppando una sorta di nuova biblioteca di Alessandria per il nostro presente. Abbiamo documenti dagli anni ’70 in poi. Può essere l’impalcatura per un mondo migliore. Ogni decisione che prendiamo è basata su quello che sappiamo, e la libera informazione ha la possibilità, quindi, di generare decisioni migliori. Se guardiamo la storia della civilità è chiaro che il progresso è avvenuto di pari passo con la circolazione delle informazioni, dal medioevo a Gutenberg fino alla modernità, man mano che abbiamo acquisito verità siamo in stati grado di fare cose migliori. La ragione per cui considero questo un momento particolarmente cruciale è che mi sembra che la civiltà sia a un crocevia. Da un lato c’e’ una distopia di sorveglianza di massa condotta da stati fuorilegge, dall’altro c’è una nuova concezione di cosa pubblica, la possibilità di un consenso transnazionale costruito sulla libera circolazione delle informazioni e la comunicazione stimolata dalla trasparenza.
Voi continuate ad essere operativi?
Oggi stesso abbiamo distribuito 6 video di Snowden, i primi che sono apparsi della sua permanenza in Russia, in cui riceve il premio Sam Adams presentato a “whistlewblower” (talpe, ndr) che hanno denunciato misfatti di Cia, Fbi e Nsa. Siamo in contatto costante con lui, la nostra giornalista Sarah Harrison lo ha aiutato nel suo trasferimento da Hong Kong a un luogo dove avrebbe potuto essere protetto. Il nostro impegno è contro stati che fanno le regole ma poi si arrogano il diritto di infrangerle se questo è nel loro interesse. E’ incredibile che Jay Carney, il portavoce della Casa bianca, arrivi a condannare la Russia per aver permesso un incontro fra Snowden e Amnesty international! E’ roba che ti aspetteresti dalla Corea del Nord. E dimostra come gli Stati uniti siano controllati da un Deep State, uno “stato profondo” – lo stato segreto dell’apparato di sicurezza.
Come risponde a chi vi accusa di aver messo a repentaglio vite innocenti con le vostre rivelazioni?
E’ la semplice ripetizione di comunicati stampa del Pentagono. Nemmeno il governo Usa ha mai potuto provare l’esistenza di una sola vittima a causa del nostro operato. E’ solo una distorsione di un’affermazione ipotetica fatta dal capo di stato maggiore ammiraglio Mullen nel 2010 e ripetuta senza il condizionale dai media di Murdoch. E oggi su internet è dieci volte più facile trovare questa citazione che non un’analisi delle vere cause di milioni di morti nel mondo: le guerre imperialiste. Ogni volta che viene pubblicata una storia seria che imbarazza l’apparato di sicurezzza loro ci ritorcono contro le menzogne.
E’ ancora possibile oggi l’anonimato su internet?
Molto difficilmente. E’ possibile un offuscamento parziale delle identità usando ad esempio gli algoritmi di Tor che neanche la Nsa è attualmente in grado di penetrare. Io comunque credo che le rivelazioni di Snowden e Greenwald, come il precedente lavoro dei nostri “cypherpunks”, stia producendo una “domanda di mercato” per tecnologie anti-sorveglianza. Le rivelazioni sui software americani in cui vengono preventivamente inserite “backdoor”, sistemi di accesso per le agenzie di sorveglianza, sono destinate a provocare il collasso dell’export informatico americano. E credo che vedremo presto una simile dinamica di allontanamento da social network e nuvole-dati americane, una perdita potenziale stimata in 20 miliardi di dollari.
Ci sarà un buon film sulla storia di Wikileaks?
Dopo la drammatica vicenda di Snowden c’è già chi opportunisticamente ha messo in cantiere sceneggiature per nuovi film. Sono agiografie prodotte senza alcuna vera conoscenza di ciò che è realmente accaduto. Io consiglierei a tutti di attendere che sia pronto il film a cui sta lavorando Laura Poitras e che spero possa essere presentato al prossimo festival di Sundance.
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