Vittoria strategica per Bashar al-Assad nella battaglia di Qusayr. Domenica, dopo settimane di scontri, raid aerei e colpi d’artiglieria, l’esercito di Damasco ha ripreso il controllo della città al confine con il Libano. Una cinquantina i morti, tra cui 20 soldati siriani.

Fondamentale il sostegno militare di Hezbollah, che nella battaglia ha perso almeno 23 combattenti, ulteriore prova dello coinvolgimento nella guerra civile siriana. Che rafforza gli istinti bellici di Tel Aviv: il premier Netanyahu ha promesso nuovi interventi armati contro Damasco per fermare il passaggio di armi verso il Libano. Il tutto mentre il segretario di Stato Usa, John Kerry, torna in Medio Oriente con l’obiettivo dichiarato di «trovare una soluzione diplomatica» ad un conflitto lungo due anni.

La presa di Qusayr è un punto a favore del regime di Damasco: dopo settimane di assedio, l’esercito di Assad ha combattuto i gruppi di opposizione casa per casa, fino al controllo della roccaforte dei ribelli. La tv di Stato siriana ha riportato dell’arresto di miliziani che fuggivano travestiti da civili. Qusayr è luogo strategico per entrambi i fronti: al confine con il Libano, collega la capitale Damasco alla costa mediterranea. Controllarla significa, in parte, controllare la Siria, ed in particolare lo smercio di armi contrabbandate in ingente quantità dalla porosa frontiera libanese. Da tempo il governo siriano era impegnato nella zona, il distretto di Homs, cuore della comunità alawita a cui appartiene il presidente Assad.

La Coalizione Nazionale Siriana, federazione dei gruppi di opposizione, ha reagito accusando l’esercito di Damasco di aver operato «un bombardamento barbaro e distruttivo» della città, e mettendo in guardia Assad e la comunità internazionale: così naufraga la conferenza proposta dal segretario di Stato Kerry e dal ministro degli esteri russo Lavrov – prevista a Ginevra a giugno – che però le stesse opposizioni hanno aspramente criticato. La road map immaginata da Mosca e Washington non prevede l’allontanamento immediato del presidente Bashar al-Assad, ma un suo possibile coinvolgimento nella transizione politica, almeno nell’immediato.

E mentre Assad afferma di non volersi fare da parte (se non a fine mandato, nel 2014) e di voler affidare al popolo siriano il diritto/dovere di scegliere con libere elezioni il suo successore, Kerry è tornato ieri in Medio Oriente, in Oman, per una serie di incontri sulla questione siriana. Si sposterà poi in Giordania dove incontrerà i rappresentanti di dieci Paesi europei e arabi. Nelle ultime settimane la Lega Araba, guidata da Stati non certo vicini ad Assad (Qatar, Turchia e Arabia Saudita in primis) ha assunto un ruolo centrale nella definizione della transizione politica immaginata da Kerry.

Da parte sua la Russia gioca su due tavoli: dopo aver bloccato per due anni le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza Onu contro Damasco, si prepara a consegnare al regime di Assad sistemi di difesa anti-missile S-300, in grado di rafforzare significativamente la struttura difensiva della Siria. Dal canto loro, i gruppi di opposizione siriani continuano a ricevere aiuti e armamenti «non letali» e consiglieri militari «letali» dagli Stati Uniti. Conferenza o no, la diplomazia russo-americana parla lingue militari.