In Europa si è avviato un confronto perché gli Stati possano fornire aiuti economici alle imprese con maggiore facilità e discrezionalità. Un confronto che indica, perlomeno, la difficoltà del mondo industriale continentale nel fronteggiare il regime di ipercompetizione su scala globale. Promotori sono stati principalmente Germania e Francia, i due paesi chiave dell’Unione. Le vecchie regole, un tempo considerate inviolabili, oggi possono essere sacrificate in nome di una condizione straordinaria.

Si parla di provvedimenti temporanei, ma le ragioni sottostanti una tale scelta sono così strutturali che sarà difficile considerarli una parentesi.

Gli aiuti di Stato sono necessari per adeguare l’impresa europea ai competitor mondiali, cioè Stati Uniti e Cina, che non si fanno scrupoli a iniettare risorse pubbliche per reggere la sfida internazionale. Il dibattito in corso ci parla di una svolta geopolitica e selettiva della globalizzazione, dove gli aspetti d’interesse strategico prevarranno sempre più sulla logica della «libera» competizione. Inoltre, l’agognata svolta green potrà avvenire solo al prezzo di programmi pubblici straordinari per agevolare le riconversioni industriali e, perché no, per rendere politicamente e socialmente sostenibile il progetto stesso, aiutando i soggetti che pagheranno un prezzo salato per questi cambiamenti. Da qui, in sintesi, nasce l’urgenza di ricorrere nuovamente agli aiuti di Stato. Il consenso, però, non è unanime.

Colpisce, in particolare, l’ostilità delle classi dirigenti italiane (Governo e imprese in primis). Esse temono che gli aiuti di Stato andranno a favorire i paesi che hanno maggiori margini di manovra in quanto meno indebitati. Paesi come Germania, Paesi Bassi e persino la Francia potrebbero indebitarsi di più e a costi relativamente contenuti per favorire le aziende nazionali, alterando i meccanismi competitivi a danno delle aziende italiane che invece questi aiuti faticherebbero a racimolare. La contraddizione è reale, ma rimuovere il problema a monte che genera questa necessità sul piano continentale risulta particolarmente problematico. In questo senso, in Italia non si avanzano altre idee che non siano incentrate sul libero fare delle imprese. Un’illusione che rischia di scivolare nella miopia.

Certo il problema del debito esiste (l’Italia raggiunge il 145,5% del Pil nel 2022), come esiste il rischio che gli aiuti di Stato facciano rima con pubblicizzazione del debito privato e sostegno ai profitti. Allora quello che serve è una politica industriale pubblica, consapevoli che la pandemia e ancor prima la crisi del 2008 hanno determinato un’esplosione del debito a tutte le latitudini per contrastare la tendenziale stagnazione, con poche eccezioni (tra cui spicca la Germania). Per fare un esempio, la Francia nel 2021 aveva un debito pari al 112% del Pil, nel 2010 era solo all’85%, mentre nel 2007 era al 64,5%. Nella prossima fase il fattore inflazione inciderà nel contenere il peso relativo del debito. In questo quadro rivendicare il mercato significa non comprendere la partita globale che si è aperta.

Piuttosto l’Italia dovrebbe chiedere un piano europeo, capace di reggere la sfida globale e di mettere al centro il tema della giustizia sociale e della conversione ecologica. Per dare forza all’azione pubblica servirà una riforma del fisco, nazionale ed europeo, che recuperi il criterio progressivo della tassazione. É inutile giraci attorno, il debito pubblico potrà essere gestito o ridotto non tanto attraverso la crescita economica, di cui non si prevedono grandi accelerazioni nel prossimo futuro, ma intervenendo sulle grandi ricchezze.

Le forme possono essere molteplici, ma la combinazione con l’inflazione (auspicabilmente non eccessivamente alta) potrà alleggerire il fardello del debito e dare fiato a progetti di trasformazione economica sempre più impellenti. Altrimenti aspettiamo Godot.