Asor Rosa, avventura critica di un intellettuale del Novecento
Tra militanza e invenzione Mezzo secolo di letteratura, politica, narrativa, dall’ideologia della Resistenza (Scrittori e popolo) agli ultimi racconti (Amori sospesi): un «Meridiano» in tre sezioni per Alberto Asor Rosa
Tra militanza e invenzione Mezzo secolo di letteratura, politica, narrativa, dall’ideologia della Resistenza (Scrittori e popolo) agli ultimi racconti (Amori sospesi): un «Meridiano» in tre sezioni per Alberto Asor Rosa
L’ingresso di un autore nei «Meridiani» ne rende percepibile e insieme ne determina la storicità. Ciò è vero anche per i contemporanei; anzi, forse vale soprattutto per loro: una figura del passato rientra di fatto nella storia letteraria (che non per forza coincide con i canoni delle storie della letteratura); poeti e scrittori recenti o addirittura viventi devono invece conquistare il diritto alla storicità. Tale diritto può essere concesso in base a vari requisiti: il principale è l’implicazione di un autore nella sua epoca; e poiché si tratta anche della nostra epoca, è naturale riconoscergli una funzione esemplare, testimoniale e, in definitiva, storica. Rispetto a questa condizione, passano in secondo piano altre doti necessarie, come il rilievo letterario (per esempio la centralità nello sviluppo di un genere o di una tradizione stilistica) o sociologico (per esempio il credito persistente al livello del consumo medio o medio-alto). Se la possibilità di essere storicizzati è il parametro fondamentale, non stupisce ed è anzi coerente l’apertura dei «Meridiani» a figure il cui prestigio non dipende tanto e solo dalla scrittura d’invenzione, quanto da quella critica, saggistica, giornalistica o di riflessione culturale in senso ampio: da Macchia a Praz, da Cecchi a Debenedetti, da Citati a Segre, il catalogo è ricco e composito (e di alcuni altri autori e autrici, non meno importanti, si sente la mancanza). Nella categoria rientra ora il «Meridiano» di Alberto Asor Rosa, Scritture critiche e d’invenzione, a cura di Luca Marcozzi, con un saggio introduttivo di Corrado Bologna e uno scritto di Massimo Cacciari (Mondadori, pp. CXXXVI-1856, euro 80,00).
Lo studio storico e critico della letteratura è senza dubbio il campo principale in cui Asor Rosa ha esercitato la sua funzione autoriale. Ora, se ogni atto critico è la risposta meditata a un’urgenza e presuppone una controversia interna o esterna, la monumentalità della forma-«Meridiano» potrebbe contraddirne la natura e lo scopo; potrebbe rischiare cioè di cristallizzare la critica promuovendola da mezzo a fine. Il volume di Asor Rosa assume questa potenziale contraddizione e ne fa implicitamente il cuore di una riflessione su critica e storia, su lunga durata e istanze del presente, che si dispiega attraverso le tre parti in cui è articolato: Critica e storia letteraria, Laboratorio politico e riflessioni sul mondo, Narrativa. Sono gli ambiti d’interesse e influenza in cui per decenni e fino a oggi si è sviluppata l’attività di Asor Rosa; era perciò opportuno dar conto di tutti e tre in una raccolta che rappresenta e fissa il carattere culturale del suo autore.
Intellettuali e classe operaia
Includere diversi generi e forme ha reso ovviamente necessaria una scelta antologica di pagine e capitoli da alcuni dei libri più famosi: la sezione critica accoglie per esempio parti di Scrittori e popolo (1965, ancora oggi tra le opere più note e citate di Asor Rosa) e Scrittori e massa (2015); cinque capitoli provengono da Genus italicum (1997), in cui sono raccolti i saggi scritti per la Letteratura italiana di Einaudi da lui diretta. La sezione politica si apre su una scelta di saggi da Intellettuali e classe operaia (1973), per chiudersi con Fuori dall’occidente (il pamphlet sulla Guerra del Golfo uscito nel 1992) di cui è riprodotto il testo integrale. Infine, il settore degli scritti d’invenzione ospita il romanzo L’alba di un mondo nuovo (con cui Asor Rosa esordì nel 1992 nel genere narrativo) e due racconti da Amori sospesi (2017).
I capitoli di critica, estrapolati dai loro contesti e riletti qui, lasciano a volte il senso d’incompletezza del discorso interrotto (anche se le note di Marcozzi aiutano molto nel ricomporre il senso e l’intento dell’insieme); ma è chiaro che lo scopo del «Meridiano» non è quello di somigliare agli opera omnia. La sua funzione è piuttosto quella di rappresentare l’autore; la forma antologica, perciò, non è il risultato di un’esclusione ma la sintesi e la riconfigurazione di una personalità. È proprio sotto questa luce che si coglie il nesso tra il critico e la storia, che dovrebbe costituire il senso del «Meridiano» come libro. Un nesso, cioè, che fa di questo volume quasi il romanzo o l’avventura di un intellettuale nel Novecento e, di riflesso, un racconto soggettivo ed emblematico di mezzo secolo di cultura e politica, dall’ideologia della Resistenza discussa in Scrittori e popolo fino al diritto/dovere alla rinuncia, affermato dal protagonista del racconto conclusivo, Il Vecchione e la Bella Fanciulla. Se si trattasse davvero di una narrazione, la fabula sarebbe quella che si dispiega nell’ampia, partecipe cronologia curata ancora da Luca Marcozzi. Nell’‘intreccio’ risaltano alcuni personaggi-chiave, gli intellettuali-scrittori o scrittori-ragionatori: Italo Calvino, cui giustamente Asor Rosa riconosce il ruolo di autore-faro per tutto il secondo Novecento (per entrambi, osserva Bologna nel saggio introduttivo, la letteratura «insegna a “guardare” la realtà, ad “essere in mezzo al mondo”: ma soprattutto a scavarlo, a rovesciarlo»); Franco Fortini (il cui intento – ha scritto Asor Rosa recentemente a proposito della raccolta dei saggi fortiniani di Mengaldo – è stato quello «di farci capire e sentire in che mondi ci era capitato di vivere»); e Pier Paolo Pasolini, a cui in Scrittori e popolo è riservato l’ampio spazio necessario ad argomentare un giudizio profondamente critico.
A Pasolini in particolare si rimprovera un’idea di popolo ridotto a natura e animata da una tensione estetico-passionale; ma è proprio la radicalità della critica a renderlo un autore importante e, nel tempo, riconosciuto come esempio di scrittore intellettuale. Il libro del ’65 non poteva tener conto dello sviluppo che l’ideologia e la poetica di Pasolini avrebbe avuto nel decennio successivo. Ma, in Scrittori e popolo, ai passaggi più datati si alternano diagnosi nel complesso tuttora valide: la trasformazione del popolo «in mito, in immagine rovesciata di sé», così come la promozione di «tendenze folkloristiche» e di «smaccati provincialismi e dialettismi» resistono nell’immaginario letterario italiano e ancora di più nelle rappresentazioni cinematografiche o televisive.
Il grande pessimismo italiano
Nei saggi di Genus italicum lo sguardo si sposta dal Novecento alla tradizione, fermandosi in particolare sulle figure di Francesco Guicciardini e di Paolo Sarpi. Al primo, Asor Rosa conferisce un rilievo uguale e contrario a quello riconosciutogli da De Sanctis. Per entrambi, Guicciardini incarna un tratto antropologico (il genus appunto) prima ancora che storico e filosofico; sennonché, dove De Sanctis vede un tratto di opportunismo e una deviazione dalla linea teleologica di una storia idealistica insieme letteraria e civile, Asor Rosa individua l’origine del «grande pessimismo italiano» sorto dalla «coraggiosa presa d’atto dell’irrimediabile conflitto tra mondo della pratica e mondo della ragione». Per questo Guicciardini e Sarpi (che nell’Istoria del concilio tridentino dà conto della crisi religiosa dell’Italia moderna), secondo Asor Rosa, descrivono meglio strutture di lunga durata e «appaiono più contemporanei nostri» di Gioberti, Mazzini e dello stesso De Sanctis. Per questo, ancora, le Lezioni americane e gli scritti tardi di Calvino, cui è dedicato l’ultimo estratto da Genus italicum, sono il punto di approdo da cui guardare a ritroso la tradizione (tutta e solo maschile: ora che siamo fuori dal Novecento, la questione va posta e i canoni vanno ripensati). Opere come le Lezioni e Palomar restituiscono «una visione totalmente disincantata dell’esistenza umana e del cosmo» continuando strenuamente a descrivere l’una e l’altro. Non è un caso che nell’attitudine del Vecchione, protagonista del racconto quasi allegorico che chiude il «Meridiano», si ravvisi qualcosa del signor Palomar, oltre e più che del personaggio sveviano a cui l’epiteto lo assimilerebbe: «Il mare sembrava un catino pieno d’olio: né brezze né ondicine ne movimentavano la superficie. Il Vecchione ne distolse lo sguardo imbronciato. Quando tutto era troppo uguale, come estrapolarne un senso, ricavarne un messaggio… come, in sostanza, conversare con l’immagine di un nulla?». Il fondo tragico del disincanto novecentesco spesso sfiora il nichilismo e desidera l’impassibilità. Descrivere questa condizione, rappresentarne il sentimento attraverso la letteratura è una via per sottrarvisi.
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