Asinelli solitari, sguardo libero, Savignano Immagini
Fotografia Al «Si Fest» diretto da Alex Majoli una sorta di abecedario della contemporaneità
Fotografia Al «Si Fest» diretto da Alex Majoli una sorta di abecedario della contemporaneità
L’educazione allo sguardo nell’era della sovrapproduzione d’immagini è una dichiarazione d’intenti tutt’altro che scontata. È da questa azione che parte il fotoreporter Alex Majoli (Ravenna 1971) per delineare la 31^ edizione del Si Fest fino al 2 ottobre), organizzato dall’associazione Savignano Immagini con il Comune di Savignano sul Rubicone. Al suo debutto come direttore artistico, Majoli (membro dell’agenzia Magnum, vincitore di premi internazionali tra cui il World Press Photo 2012/General News e cofondatore del collettivo Cesura) ha più volte intrecciato il suo percorso professionale con il festival fotografico più antico d’Italia. Nel 2002 con il progetto Hotel Marinum (insieme a Luigi Gariglio con Persons in Prisons) gli fu assegnato il Premio Pesaresi, concorso istituito quell’anno alla memoria del fotoreporter riminese Marco Pesaresi scomparso prematuramente. Fotografare implica la conoscenza di più di una regola tecnica (anche se l’immagine è prima di tutto mentale) ma, certamente, uno spirito attento sa tradurre l’universalità di un gesto o di un momento raccontando ben oltre il «frame» inquadrato dal mirino della macchina fotografica. Un po’ come faceva Pier Paolo Pasolini con la sua visionaria e consapevole capacità analitica, anche quando scriveva appunti dalla Cappadocia dove stava girando con Maria Callas alcune scene di Medea.
«Appena fuori da Nevsheir – dove arriva un pullman di vecchie francesi e americane al giorno – il rosa e un ocra incantato – quello dei vecchi otri – un po’ opaco e ottuso, anche – e il giallino prosaico che dà sul marrone, ma insieme il giallo pazzo dello zolfo – si sono posati su erosioni… Ma non voglio mettermi a fare della prosa d’arte. (…) Asinelli solitari (con addosso la grossa sella bombata di pelle di pecora bianca) frequentano quelle vallette; è la loro stagione e non lo nascondono – ma, dissociati, continuano a occuparsi del cibo, con le lunghe teste piene di quella loro saggezza ostica e poco effabile.» Il racconto, pubblicato nella rubrica «Il caos» sul settimanale Tempo del 28 giugno 1969 è anche la lucida osservazione dei cambiamenti socio-politici ed economici in atto nella Turchia di allora e si conclude con parole profetiche: «molta prosaicità ci aspetta negli anni futuri». Asinelli solitari, citazione pasoliniana nel centenario della nascita del grande intellettuale, è proprio il titolo della XXXI edizione del Si Fest, espressione della volontà del direttore artistico di partire dai «banchi della scuola» per approfondire la conoscenza dei diversi linguaggi fotografici con un approccio il più possibile libero dagli schemi.
Il catalogo del festival (firmato da S.C. Artroom) è concepito come un album/diario di scuola e gli stessi ambienti scolastici della cittadina sono al centro del percorso espositivo ospitando una serie di esposizioni: dai lavori prodotti durante il laboratorio estivo Si Fest Kids ai workshop Mappa sentimentale (scuole medie) e Fotografare l’autoritratto (scuole superiori), fino a Counter-Surveillance in H2: A project by Artists + Allies x Hebron (a cura di Issa Amro e Adam Broomberg con la collaborazione di Lena Holzer e la produzione di Batuhan Keskiner), un progetto della sezione Off che inquadra la videosorveglianza di massa attuata dalle forze israeliane a Hebron. In mostra anche le opere dei fotografi che l’anno scorso hanno vinto concorsi legati al Si Fest: Andrea de Franciscis con Delhirium (Premio Marco Pesaresi), Luca Meola con Cracolândia (Premio Portfolio Werther Colonna) e Ilaria Sagaria con Piena di grazia (Premio Portfolio Italia – Gran Premio Fujifilm). Un «allenamento visivo» dinamico, quello proposto dal circuito ufficiale con materie che vanno dalle «scienze» con lo storico reportage Morire di classe di Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin sulla condizione dei manicomi (il libro fu pubblicato per la prima volta nel 1969) all’«educazione civica» con Lee Miller, musa di Man Ray e corrispondente di guerra per Vogue, unica donna fotografa a documentare la liberazione dei campi di concentramento e sterminio di Dachau e Buchenwald. Se, poi, la «geometria» è rappresentata dalle immagini metaforiche di Ettore Sottsass (l’architetto le realizzò negli anni ’70 durante i viaggi in Europa, Stati Uniti e Medio Oriente), la «storia» si legge negli scatti di Peter van Agtmael, Christopher Anderson, Stefano Dal Pozzolo, Gabriele Micalizzi, Martin Parr, Jérôme Sessini e Alec Soth. Per la «religione» Marwan Bassiouni presenta New Dutch Views e Erik Kessels affronta la «geografia» nel progetto In Almost Every Picture #2.
In merito alla «letteratura» quattro straordinari fotografi che utilizzano scrittura e fotografia mostrano ulteriori possibilità creative del mezzo fotografico: Duane Michals, Jim Goldberg, la marocchina Lalla Essaydi che indaga l’identità femminile araba e il più giovane Kevin Claiborne che costruisce e decostruisce frasi «creando nuove poesie e nuove composizioni».
Proseguendo in questa sorta di «abecedario» della contemporaneità (confermata la presenza durante le giornate inaugurali dei fotografi Ivars Gravlejs, Chiara Fossati, Thomas Dworzak, Stanley Greenberg, Adam Broomberg), dalla Lettonia post-comunista all’Afghanistan dei Talebani, dal Brasile alla Germania, arriviamo in Uganda dove Michele Sibiloni ha realizzato il reportage Nsenene sulle cavallette che in quel paese dell’Africa orientale sono un piatto appetibile e nutriente (visto il loro alto contenuto proteico), nonché fonte di reddito per la popolazione. Il confine tra tradizione e cambiamento affiora anche in The Yoshida Dormitory – Students’ History and an Old Darkroom che il giapponese Kanta Nomura ha realizzato tra il 2008 e il 2017 nel più antico studentato universitario del Giappone. Il tempo è sospeso nel campus dell’Università di Kyoto a lungo autogestito e poi abbandonato (era dotato anche di camera oscura). Il fotografo osserva sandali, lenzuola sporche, bottiglie aperte: è affascinato dalle tracce di presenze e dagli odori persistenti di olio e sudore, cibo scaduto, mozziconi di sigaretta e umidità trasudata da pavimenti e tatami. Tracce che nelle sue immagini diventano segni di generazioni di studenti. La fotografia, si sa, è sempre un potentissimo strumento introspettivo, ne è consapevole anche Nomura nell’affermare che quell’odore persistente gli ha riportato alla memoria i suoi ricordi da studente: «Allo stesso tempo ero invidioso delle passioni che a quell’epoca non avevo mai avuto; sentivo di non aver vissuto pienamente il mio tempo da studente…»
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