Arundhati Roy, un’icona della nuova India
Intervista Una scrittrice impegnata nella difesa dei diritti umani contro la globalizzazione
Intervista Una scrittrice impegnata nella difesa dei diritti umani contro la globalizzazione
Un testo-fiume, accorato, personalissimo e profondamente politico al tempo stesso, che con il titolo La Fine dell’Immaginazione il settimanale Outlook (all’epoca diretto dall’ottimo Vinod Mehta) pubblicò il 3 agosto del 1998 – ponendosi decisamente controcorrente rispetto al mood emergente già in quegli anni, agli albori dell’hindutva. Sulla scia del successo de Il Dio delle Piccole Cose il pamphlet venne ripreso anche su The Guardian e poi raccolto in libro, il primo di una lunga serie di scritti politici che nell’arco di vent’anni contribuirono all’affermazione di Arundhati Roy come brillante polemista, a suo agio sulla scena che solo pochi anni fa chiamavamo no global – come nei tanti readings che regolarmente registravano (e tuttora) il tutto esaurito. L’ultimo in ordine tempo si è tenuto proprio recentemente, primi di giugno, alla British Library di Londra in tema di ‘traduzione’, e per gentile concessione dell’autrice ne presentiamo un brano in queste stesse pagine.Fa un certo effetto rileggerlo, quel saggio, con una polveriera-India persino più inquietante di quella nucleare di vent’anni fa, con l’escalation di violenza riportata quotidianamente sui media: stupri, linciaggi, squadracce in libertà. Ma c’è una frase subito dopo i paragrafi iniziali, che è … proprio tutto un programma:
A.R. Vent’anni fai non potei fare a meno di scrivere quel testo, per due motivi: perché dovevo; e perché dopo il successo de Il Dio delle Piccole Cose sarebbe stato sciocco tacere. Non fu un testo facile, non ero abituata a misurarmi con determinate tematiche. Ma non mi è mai piaciuta la definizione di scrittrice-attivista – come se fosse necessaria una doppia qualifica, oltre alla scrittura. Il mio lavoro come saggista o nella narrativa è lo stesso, espressione di una stessa visione politica del mondo, sono io che scrivo: con la finzione metto in scena un universo di situazioni, voci, istanze, corpi; come saggista provo a spiegare meglio i nessi. In India dove l’ideologia del majoritanism è ormai totalizzante – con la gente che sembra non avere altra aspirazione che quella del branco, una riedizione del fascismo di italiana memoria ma con proporzioni e dinamiche indiane, per cui spaventose – chiunque provi a dire una cosa diversa è immediatamente wrong, sbagliato, da rimettere in riga, perseguire, non solo per quello che dice ma perché è uscito dal branco. Ma questo deve fare uno scrittore: scrivere in dissonanza.
Fu solo dopo aver scritto Il Dio delle Piccole Cose che sentii il sangue fluire più liberamente nelle vene. Era un sollievo inimmaginabile aver trovato finalmente un linguaggio che assomigliava al mio. Una lingua in cui avrei potuto scrivere nel modo in cui penso. Un linguaggio che mi liberava. Il sollievo non durò a lungo. Come avrebbe detto Estha (uno dei gemelli/protagonisti de Il Dio delle Piccole Cose – ndr), le cose possono cambiare in un giorno.
Sono pazza? Oppure ho ragione?”
Nel febbraio 2002, per cause sicuramente dolose, sessantotto pellegrini indù vennero bruciati vivi in un treno che si era fermato a Godhra, una stazione ferroviaria nel Gujarat. La colpa dell’incendio venne immediatamente attribuita ai musulmani di quella città. Come “vendetta” più di mille musulmani vennero massacrati in pieno giorno dalle folle indù, in tutte le città e villaggi del Gujarat. Più di centomila vennero cacciati dalle loro case e ammassati in campi profughi. Sicuramente non fu il primo massacro ai danni di una comunità minoritaria nell’India post-indipendenza, ma fu il primo ad essere trasmesso in diretta nelle nostre case.
La Fine dell’Immaginazione è stato per me l’inizio di vent’anni di scrittura saggistica. Quasi tutti i saggi sono stati immediatamente tradotti in hindi, malayalam, marathi, urdu e punjabi, spesso a mia insaputa. Increduli seguivamo gli sviluppi di quel waltzer sempre più intimo, tra il peggior fondamentalismo religioso e quello altrettanto sfrenato del libero mercato, che era stato promosso alla grande fin dai primi anni ’90 – modificando il paesaggio intorno a noi a una velocità che era stata molto divertente per alcuni, e devastante per molti altri. Enormi progetti infrastrutturali stavano sfollando centinaia di migliaia di poveri nelle aree rurali, lasciandoli alla deriva in un mondo che non sembrava neppure capace di vederli – o semplicemente non voleva. Era come se città e campagne avessero smesso di comunicare tra di loro. E il problema non era la diversità di linguaggio, semmai la traduzione. Ad esempio, i giudici dall’alto dei loro scranni nella Corte Suprema, sembravano incapaci di capire l’impossibilità di tradurre in denaro il rapporto con la terra, per una persona appartenente a una tribù indigena. (Io stessa sono stato accusata di oltraggio alla Corte per aver detto, tra le altre cose, che offrire compensi in denaro agli adivasi, ovvero agli indigeni, era come pagare in sacchi di fertilizzanti i salari destinati alla Corte Suprema.)
Nel corso degli anni, quei saggi dischiusero mondi segreti anche per me – il miglior compenso cui qualsiasi scrittore può aspirare. Viaggiando, incontravo linguaggi, storie e persone il cui modo di pensare ha contribuito ad espandere il mio, in modi che non avrei mai immaginato.
http://raiot.in/in-what-language-does-rain-fall-over-tormented-cities/)
frutto del lavoro del documentarista Tarun Bhartiya insieme al collettivo TUR (acronimo che sta per Thma U Rangli Juki che in lingua khasi significa Guerra di Povera Gente) nello stato orientale del Meghalaya e bell’esempio di cultural activism indiano,
Fu solo dopo aver scritto Il Dio delle Piccole Cose che sentii il sangue fluire più liberamente nelle vene. Era un sollievo inimmaginabile aver trovato finalmente un linguaggio che assomigliava al mio. Una lingua in cui avrei potuto scrivere nel modo in cui penso. Un linguaggio che mi liberava. Il sollievo non durò a lungo. Come avrebbe detto Estha (uno dei gemelli/protagonisti de Il Dio delle Piccole Cose – ndr), le cose possono cambiare in un giorno.
Sono pazza? Oppure ho ragione?”
Nel febbraio 2002, per cause sicuramente dolose, sessantotto pellegrini indù vennero bruciati vivi in un treno che si era fermato a Godhra, una stazione ferroviaria nel Gujarat. La colpa dell’incendio venne immediatamente attribuita ai musulmani di quella città. Come “vendetta” più di mille musulmani vennero massacrati in pieno giorno dalle folle indù, in tutte le città e villaggi del Gujarat. Più di centomila vennero cacciati dalle loro case e ammassati in campi profughi. Sicuramente non fu il primo massacro ai danni di una comunità minoritaria nell’India post-indipendenza, ma fu il primo ad essere trasmesso in diretta nelle nostre case.
La Fine dell’Immaginazione è stato per me l’inizio di vent’anni di scrittura saggistica. Quasi tutti i saggi sono stati immediatamente tradotti in hindi, malayalam, marathi, urdu e punjabi, spesso a mia insaputa. Increduli seguivamo gli sviluppi di quel waltzer sempre più intimo, tra il peggior fondamentalismo religioso e quello altrettanto sfrenato del libero mercato, che era stato promosso alla grande fin dai primi anni ’90 – modificando il paesaggio intorno a noi a una velocità che era stata molto divertente per alcuni, e devastante per molti altri. Enormi progetti infrastrutturali stavano sfollando centinaia di migliaia di poveri nelle aree rurali, lasciandoli alla deriva in un mondo che non sembrava neppure capace di vederli – o semplicemente non voleva. Era come se città e campagne avessero smesso di comunicare tra di loro. E il problema non era la diversità di linguaggio, semmai la traduzione. Ad esempio, i giudici dall’alto dei loro scranni nella Corte Suprema, sembravano incapaci di capire l’impossibilità di tradurre in denaro il rapporto con la terra, per una persona appartenente a una tribù indigena. (Io stessa sono stato accusata di oltraggio alla Corte per aver detto, tra le altre cose, che offrire compensi in denaro agli adivasi, ovvero agli indigeni, era come pagare in sacchi di fertilizzanti i salari destinati alla Corte Suprema.)
Nel corso degli anni, quei saggi dischiusero mondi segreti anche per me – il miglior compenso cui qualsiasi scrittore può aspirare. Viaggiando, incontravo linguaggi, storie e persone il cui modo di pensare ha contribuito ad espandere il mio, in modi che non avrei mai immaginato.
http://raiot.in/in-what-language-does-rain-fall-over-tormented-cities/)
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