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Arturo Graf, Settecento inglese tra febbre e disincanti

Arturo Graf, Settecento inglese tra febbre e disincantiJoshua Reynolds, Ritratto di Giuseppe Baretti, XVIII secolo, Indianapolis, Museum of Arts

Storiografia letteraria Baretti, Algarotti, Pope, Swift ... «L’anglomania», ultimo libro di Arturo Graf sull’influsso inglese nel XVIII secolo, voleva dare un «modello» all’Italia del 1911: ma fu insabbiato da Croce

Pubblicato quasi 4 anni faEdizione del 24 gennaio 2021

Pubblicato nel 1911, cinquantenario dell’Unità, L’anglomania e l’influsso inglese in Italia nel secolo XVIII è l’ultimo libro di Arturo Graf. Mai ristampato, fin dall’inizio non trovò sintonia coi tempi. Spaventato di come «l’incretinimento nazionale» andasse di pari passo con «l’incarognimento nazionale», l’anniversario non lo esalta. Nella pagina successiva al titolo campeggia la dedica «Alla / nazione inglese / degna / dei suoi destini». Più che «voler unirsi alle celebrazioni», scrive Francesco Rognoni – che adesso cura la riedizione del libro con Pierangelo Goffi (La scuola di Pitagora editrice, pp. LV-556, e 37,00) –, Graf sembra mostrare che «la strada indicata dall’esempio inglese era ancora quasi tutta da percorrere; se non, forse, già smarrita».
Se L’anglomania sarà inadatta al Ventennio per ovvie ragioni, il disamore per Graf di Croce e idealisti fu netto. I suoi studi storico-letterari, che nella sterminata erudizione conservano un sapore di divertito dilettantismo, non attingevano, per Croce, la purezza della «forma scientifica». Pure, nel 1981 Jacques Le Goff, nella Naissance du Purgatoire, troverà che lo studio sull’inferno medievale del «grande Arturo Graf» era «magistrale». Al magistero di Graf (docente di Storia comparata delle letterature neolatine a Torino) resterà legato il suo allievo Luigi Foscolo Benedetto, francesista sommo – e La Parma di Stendhal (1950), dove la città serve a studiare l’Italia «asfissiata dal dispotismo», sarà tra gli alimenti del culto per Stendhal di Sciascia. Dalla fase teoretica degli studi del secondo dopoguerra Graf non poteva essere più alieno, ma ora che si è chiusa i curatori hanno deciso di dare una seconda vita a questo importante e quasi sconosciuto libro – non senza notare l’ironia che il momento è forse quello in cui alla nazione inglese, dalla Gloriosa Rivoluzione in poi, riesce più arduo essere «degna dei suoi destini».
Il testo, avverte l’autore, è pieno di «curiosità», ma il suo primo intento era «scrivere un libro in servigio della nostra storia civile». D’altronde la causa prima dell’anglomania nel XVIII «non fu la letteratura degl’Inglesi, non la scienza o la filosofia; furono le istituzioni, e la prosperità e potenza che di quelle istituzioni parvero frutto». Dopo aver largito nutrimenti nel Rinascimento, un’Italia «decaduta, estenuata, dissanguata» cercò di trasfondere nella propria «corrente impoverita» i «rivoli stranieri» che aveva prima alimentato. Un cosmopolitismo che nascondeva un patriottismo ferito.
La prima infatuazione, comune all’Europa, è per la Francia. Libri e notizie da Parigi sono «la manna nel deserto» (Algarotti). L’ossequiosa ammirazione per Voltaire coinvolge gli ecclesiastici e Benedetto XIV, accettando la dedica del Maometto, ricambia con benedizioni e versi latini. Ma a metà del secolo, pace Voltaire, dov’era la gloire del teatro francese? Nelle tombe «di Molière, di Cornelio, di Racine», scrive Goldoni nel ’65, è «sepolto anche il Genio della nazione» – e «non si vedono gli allievi». Dodici anni dopo, l’epocale Discours sur Shakespeare et sur Monsieur de Voltaire di Giuseppe Baretti (che fu amico di Johnson e in Inghilterra visse trent’anni) affermerà che l’inglese superava senza confronto tutti i tragici francesi, e che Voltaire (che dopo aver cercato di usarlo aveva preso a insolentirlo) nulla intendeva di lingua e letteratura inglese. Giudizi che «nessuno» in Italia e «pochissimi» in Inghilterra o altrove si permettevano. L’italiano, in effetti, era in eletta ma ristretta compagnia (tedesca): Lessing, il giovane Goethe, Herder.
L’anglomania è «una forma della gallomania», e nasce in una Francia già a disagio coi propri ordinamenti. Voltaire e Montesquieu soggiornano in Inghilterra (dal ’26 al ’29 l’uno, dal ’29 al ’31 l’altro), e scoprono che la libertà e la prosperità mancanti in patria, gli Inglesi, lì a due passi, ne godevano appieno. Popolo saggio, virtuoso e felice, le sue istituzioni paiono le sole degne di un paese civile. Sancita dalla Francia, la scoperta invade l’Europa e chiunque mediti rinnovamenti guarda all’Inghilterra. Alessandro Verri (che nel ’77 traduce Amleto) non si sazia di ammirarla. Stupisce che la legge vi sia uguale per tutti (ecclesiastici e militari rispondono allo stesso foro dei facchini), e invidia la tolleranza e la libertà di pensiero che i Francesi predicano e gli Inglesi praticano. «Volete credere nulla? Siete padrone. Volete creder poco? Siete padrone». «Certo, quella benedetta tolleranza s’era fatta un pochino apettare anche in Inghilterra», nota Graf, ma «alcuni l’aspettano ancora».
Rognoni cita opportunamente Carl Schmitt, che nel 1942 scriveva: «Tutto ciò che tra il XVIII e il XX secolo i fanatici filobritannici hanno ammirato nell’Inghilterra era stato in precedenza già ammirato in Venezia: la grande ricchezza; … la tolleranza verso le opinioni religiose e filosofiche; l’asilo offerto alle idee liberali». L’ammirazione, veramente, era già viva due secoli prima. Nel XVI Venezia, per Jean Bodin, è il «rifugio» di chiunque voglia «gustare la dolcezza dell’indipendenza». Così il Colloquium Heptaplomeres, dove esponenti di ogni convinzione e fede discutono di scottanti «segreti» filosofico-religiosi, ha luogo nella città emblema della libertà di pensiero. E nel Mercante di Venezia il Doge non può evitare che «il corso della legge» sia uguale per tutti, e per solidi motivi: «il commercio e il profitto della città» coinvolgono «tutte le nazioni», e se agli «stranieri» non fosse garantita parità di trattamento, «la giustizia ne patirebbe» (e, dietro, il commercio e il profitto).
Nel recepire Shakespeare (e molto altro) nessuno è all’altezza di Baretti, che si distingue anche con Milton – «poeta magno», certo, però quella «quasi perpetuamente uniforme altezza de’ suoi smisurati pensieri» alla lunga stanca. Il poeta più acclamato è Pope, il cui Saggio sull’uomo viene stampato da Bodoni in inglese, latino, italiano, francese e tedesco – «una specie di Bibbia poliglotta». Di Swift, moderno Luciano, molti sentono la mancanza in Italia per fustigarne i difetti, ma «augurarlo era facile; averlo, non tanto». Per il resto, Johnson è poco noto, Richardson non suscita l’entusiasmo che accende in Diderot, e il Robinson di Defoe nessuno lo ammira come Rousseau.
Nella scienza e nella filosofia domina, con Newton, Bacone che, nato nel 1561 e morto nel 1623, era stato esaltato da D’Alambert e Voltaire come ideatore di ogni successivo progresso delle scienze. Il placito francese detta legge. «Principalissimo caposcuola tra’ moderni» e «legislatore in ogni scienza» per Algarotti, per Foscolo è «la chiave universale della filosofia». Graf si mostra febbrilmente interessato alla possibile esistenza di un suo carteggio con Paolo Sarpi, e mentre finiva il libro, sentendo che Papini lavorava ai suoi manoscritti, s’affretta a chiedergli: «Ha Ella trovato tracce di un carteggio del Sarpi con Bacone? Sarebbe cosa di straordinaria importanza». Papini non ne trovò, ma i curatori condividono l’interesse e nel Congedo auspicano lumi sull’argomento.
Che per Graf fosse importante lo si può arguire dalle ultime parole del libro. Ricordato quanto l’influsso inglese avesse contribuito a «ritemprare» l’Italia, conclude: «Sia grata a noi l’Inghilterra di ciò che le demmo nel tempo della nostra opulenza; siam grati noi all’Inghilterra di ciò ch’ella ne diede nel tempo della nostra indigenza». Un carteggio tra Bacone e Sarpi, eminenza grigia di Venezia quando nel 1606 venne scomunicata per aver applicato l’unicità della legge a due ecclesiastici, testimonierebbe uno scambio top-level tra l’ascendente Inghilterra e quella più opulenta delle città italiane di cui Sarpi tentò di contrastare l’incombente indigenza politica, lottando per salvarne la sovranità dall’ingerenza del «Diacattolico» Chiesa-Asburgo. Un pericolo che non sovrastava solo Venezia. «Sarebbe cieco chi non vedesse il giogo imminente sopra il collo d’Italia», scriveva nel 1617. In questa lotta Sarpi era pronto a staccare Venezia da Roma, agganciandola a un’Inghilterra esemplarmente sovrana e libera dall’egemonia ecclesiastica. Il progetto fallì e il giogo calò.
Un carteggio Bacone-Sarpi non è venuto fuori, ma in compenso c’è quello di Bacone con Fulgenzio Micanzio, che di Sarpi, oltre che biografo, fu discepolo prediletto, segretario e confidente strettissimo e infine successore nella carica di consultore della Repubblica. Corrispondere con Micanzio era come corrispondere con Sarpi. Tra i due non vi furono contrasti o segreti. L’anglofilia politica dell’allievo ricalca e prosegue quella del maestro, ed entrambi furono intimi di Galileo. Micanzio è colpito dal saggio Of Superstition (1612) dov’è scritto che «l’ateismo non ha mai perturbato gli stati … ma la superstizione ne ha rovinati molti». La possibilità di una società atea ma morale è tipica degli scritti privati di Sarpi, ma per iscritto verrà riaffermata solo da Bayle nel 1680. Nel ’17 Micanzio, cui Bacone mandava le ultime versioni aumentate degli Essays, decide di farli stampare. Per evitare il massacro della censura li fa tradurre in Inghilterra per introdurli poi a Venezia attraverso l’ambasciatore, ma assediato dagli impazienti «virtuosi» (la cerchia di Sarpi) traduce lui stesso Of Superstition – assieme a Sarpi aveva preso lezioni di inglese dal cappellano dell’ambasciata.
L’anglomania non riguarda dunque soltanto «il tempo della nostra indigenza», e l’interesse di Graf per un carteggio inesistente è giustificato da quello che esiste.

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