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Arts and Foods, Braque si mangia Oldenburg

Arts and Foods, Braque si mangia Oldenburg"Natura morta con clarinetto, grappolo d’uva e ventaglio", ca. 1911 – Georges Braque

All'Expo milanese «Arts & Foods», a cura di Germano Celant Il rapporto tra cibo e arti figurative in una mostra che ne sembra due: la parte «modernista» è serrata, a tratti incantata; quella «consumista», bulimica e con scelte troppo obbligate

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 10 maggio 2015

Dieci pagine solo per i «nutriti ringraziamenti», come, con doppio senso «ironico», li ha definiti lo stesso Germano Celant. 1467 opere illustrate, duemila quelle esposte nei settemila metri quadri messi a disposizione dalla Triennale. Dodici pagine di bibliografia fittissima. 960 pagine di catalogo in tutto. Arts & foods, la mostra immaginata per accompagnare Expo 2015, lavorando sulle relazioni tra il food e 150 anni di produzione artistica sul tema, non poteva che essere una mostra bulimica. Così affamata di spazi da aver costretto a spostare la biglietteria all’esterno del palazzo di Muzio in una struttura a grande arco, che richiama il disegno della Grande Arche parigina, solo, fortunatamente, molto smagrito… Arts & foods è anche la mostra che prepara un inedito confronto tra i due più esposti curatori italiani. Infatti ad agosto si misurerà con il progetto sulla Grande Madre pensata da Massimilano Gioni per Fondazione Trussardi, altro evento su larga scala, a Palazzo Reale.

Milano per questa Expo non ha voluto negarsi niente, con una foga che a volte l’ha portata a strafare (vedi le mostre di Palazzo Reale) e altre a centrare obiettivi di grande qualità (la nuova, stupenda sistemazione della Pietà Rondanini e la Fondazione Prada con la mostra Serial classic di Salvatore Settis). Questa mostra della Triennale è un po’ l’emblema della Milano incontinente. L’inizio del percorso è certamente molto alto. Una grande vetrina all’ingresso annuncia non tanto il tema, ma i luoghi in cui ci stiamo per calare. Infatti porte a molla «sigillano» lo spazio espositivo, ci danno la sensazione di lasciare il mondo abituale dietro lo spalle e di calarci in una sorta di esperienza totale. L’opera numero uno della serie infinita è un’Ultima Cena di Bonifacio de’ Pitati, riferibile a metà 1500. La si vede, come detto, prima di entrare, in quanto siamo fuori dall’arco temporale annunciato (1851-2015). Ma la scelta è perfetta, perché sottolinea una delle ragioni profonde di quella stessa relazione tra arte e cibo che ha segnato l’arte italiana, in particolare: la tavola magistralmente imbandita da Leonardo per il Cenacolo, o quella ostentata da Veronese per le sue Nozze di Canaa ora parigine, non hanno bisogno di spiegazioni. Il cristianesimo, a partire dai testi evangelici, ha sempre dato spazio e centralità al cibo: le ricadute a livello iconografico sono state ovviamente immense.

Sarà anche per questo che in tutta la prima parte del percorso, che copre l’arco cronologico precedente il grande trapasso antropologico del consumismo, si respira un vissuto felice nel rapporto con il cibo. È la stagione in cui il retroterra di secoli incide ancora profondamente nell’approccio alla realtà, anche nel caso di artisti ampiamente secolarizzati. Il cristianesimo, come racconta un agile e divertente libretto da poco pubblicato da Giovanni Cesare Pagazzi (La cucina del Risorto, EMI), è la religione dell’homo culinarius, e la frequenza dei richiami al cibo è tale (il miracolo della moltiplicazione dei pani viene raccontato sei volte…) da avere necessariamente implicazioni profonde in ogni ambito. E l’arte non è certo ambito secondario nelle strategie comunicative del cristianesimo.

La prima sezione ha così offerto al curatore, e allo «scenografo» Italo Rota – che firma anche l’allestimento del museo del Design, dedicato quest’anno naturalmente al tema delle cucine –, l’opportunità di costruire un percorso in cui la relazione dell’arte con gli strumenti e i luoghi del mangiare funziona benissimo e fornisce continui rimandi e spunti, sempre nel segno di un’alleanza.

Così, mentre guarda i due Ensor, il piccolo gioiello di Gauguin e quelle due nature morte di Segantini che sanno ancora d’antico, il visitatore si trova subito ad aggirarsi tra vetrine di stoviglie, piatti, bicchieri e posate, tutto disposto con grande sapienza. Si ammira ad esempio la lunga e ordinata «processione» di 314 coltelli, o più propriamente «taglienti», della collezione Edda e Aldo Lorenzi, titolari di una bottega storica a Milano. Arte e arti applicate si tengono benissimo, in un continuo scambio di ruoli. Il ritmo è serrato, le sorprese si susseguono, comprese le brevi deviazioni dal percorso riservate solo ai bambini, con passaggi abbassati e materiali esposti alla loro altezza d’occhio. Ci sono poi pareti bellissime, come quella che accosta De Pisis a una bruciante natura morta di Scipione. Uno stupendo Ritratto di cuoco di Monet presidia una delle ricostruzioni d’ambiente più ambiziose, quella di un bar storico di Firenze. Una sfilata di macchine del caffè dialoga con una natura morta di Braque; la cucina di Le Corbusier risponde con la sua essenzialità alla ridondanza del tavolo lavoro/desco di Gabriele D’Annunzio. In una sorta di view master che incanta grandi e bambini, si vede navigare una flotta di imbarcazioni storiche attrezzate per il trasporto del cibo. Persino la grande parete in cui sono montate gavette di ogni provenienza parlano di un rapporto amico con il cibo, anche in condizioni ostili com’erano le guerre.

Tutto cambia nel momento in cui si esce da questa sezione e la porta a molla si chiude dietro di noi. Un botteghino McDonald’s attrezzato di tutto punto preannuncia un ribaltamento di prospettiva: il feeling tra l’uomo e il cibo sembra interrompersi e l’arte non solo ne prende atto, ma lavora per fomentare il conflitto. Cambia completamente anche la logica allestitiva, con gli spazi che si fanno molto più larghi e il gioco delle corrispondenze con le arti applicate che passa in secondo piano, anche perché le opere non eccitano più nessun appetito. È il trionfo della Pop art e di Oldenburg in particolare, cui i curatori hanno lasciato grande spazio. Il cibo viene rappresentato nella sua artificiosità, prodotto industriale dove i gusti sembrano tutti indotti. Insomma, dalla civiltà del gusto si passa a quella del disgusto. È un’escalation che prosegue in maniera ancora più radicale al secondo piano dove il percorso, partendo dall’arte povera, ci porta sino ai giorni nostri. Nella libertà di linguaggi che la contemporaneità conquista, il cibo diventa anche materia prima per gli artisti. È la food art a cui fa ricorso Giuseppe Penone con il suo bellissimo Pane alfabeto del 1969, un filone di 2,70 metri nel quale sono state inserite tutte le lettere dell’alfabeto in ferro, lettere che gli uccelli, sbeccucciandolo poco alla volta, dovrebbero portare allo scoperto (è opera che andrebbe esposta open air). Kounellis invece lavora con il caffè, sua materia prima prediletta, ammucchiandolo ordinatamente su decine e decine di bilancini allineati. Dovrebbero diffondere nello spazio profumo, ma non ci riescono perché sono ben altri gli odori che vincono. Odori di cibo ammuffito, come quello che esalerebbe dalla installazione di Antoni Miralda, Patriot Banquet, dove i piatti patriottici sono lasciati ad ammuffire sul tavolo (ovviamente coperti). Qualcosa di mefitico si leva simbolicamente anche dalle grandi fotografie di Cindy Sherman. Ovviamente le reinterpretazioni infinite di quell’icona senza tempo che è l’Ultima Cena di Leonardo scivolano impietosamente verso tutte le possibili varianti dell’intossicazione. C’è anche Dieter Roth, che aveva saputo riempire della fragranza del cioccolato i grandi spazi dell’Hangar Bicocca, con la lavorazione in situ dei suoi autoritratti commestibili. Qui invece il cioccolato, in forma di tronchi, inghiotte dei nanetti da giardino di cui spuntano solo i piedi. Ma nessun aroma si alza nello spazio. E chi ha memoria di quella mostra milanese di solo due anni fa ne sente un po’ di nostalgia.

Alla fine, l’impressione non è di aver visto una mostra, ma due. adicalmente diverse in tutto, più che per scelta, per necessità. La transizione dell’inizio degli anni sessanta rappresenta infatti un salto di discontinuità antropologico che non ha lasciato scampo ai curatori. Ma la sensazione è che con le sezioni destinate alla «civiltà del disgusto» sia venuto meno un po’ anche il gusto del far la mostra che avevamo assaporato e goduto nella prima parte, con quei dispositivi allestitivi che funziono a meraviglia. Anche le scelte delle opere e degli autori sembrano seguire copioni più obbligati, dando la sensazione di una certa scontatezza, senza quei colpi di fantasia con cui siamo stati catturati nella sezione iniziale.

Questa è comunque una mostra in cui il catalogo (Electa, euro 50,00) gioca una funzione decisiva. Gran parte del lavoro di riflessione e approfondimento è confluito in queste quasi mille pagine, con una ricchezza di contributi che aiutano a capire e a leggere in modo non scontato e non predeterminato anche la stagione della grande intossicazione.

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